lunedì 13 luglio 2015

Diari d'India (seconda parte)


Prosegue il nostro itinerario lungo la costa meridionale dell'India, attraverso il Tamil Nadu fino a valicare i confini del verdeggiante e pepato Kerala. Giunti a Cochin si vola ahimè a casa, ma non prima di un breve scalo a Mumbai, per concludere degnamente il viaggio con un balletto in pieno stile bollywoodiano (sì, quello che si fa in attesa di trovare un gabinetto libero, considerando il cibo speziato.) Ecco qui di seguito i diari mancanti: potete leggere nell'ordine che preferite questi olii essenziali estratti direttamente dalla mia già annacquata memoria, sperando che possano avere su di voi effetti anche solo blandamente ayurvedici.  

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29 maggio, Madurai. Sulle mattonelle a spina di pesce del viale si riversa dai entrambi i lati l’ombra degli alberi di due parchi. Tra la folla regna una piacevole, vivace atmosfera domenicale. Si può già intravedere la sagoma torreggiante del gopuram del tempio. Ancora una volta un luogo sacro richiama alla mia mente le attrazioni di una fiera: quel baldacchino grondante di dei, mostri e animali dai colori fluorescenti sembrano caduti dal cielo, dopo essere sfuggiti dalle grinfie di una mano meccanica, e rimasti ammonticchiati lì come inafferrabili peluche.
In occasione della visita, indosso un ampio e svolazzante panjabi (o kurta: una camicia lunga fino alle ginocchia) bianco, su cui oscilla il mala (rosario indù) che ci hanno regalato a Chettinad. Per coprire le gambe, ho dovuto legarmi alla vita come un pareo (o meglio, un dhoti) la coperta che ho rubato dall'aereo. Dovrei testare il look indiano anche una volta rientrato, visti i risultati: una passante mi ha regalato una rosa. Poi trovo sia un abbigliamento estremamente comodo, e la cosa non mi stupisce: uno dei grandi meriti dell'India, se lo chiedete a me, è l'invenzione del pigiama.
All'interno del tempio, nei portici attorno alla vasca del Loto d’Oro, s'intrattengono pittoreschi gruppi di fedeli: non hanno nulla di ascetico, ma chiacchierano allegramente e mangiano a mani nude seduti su tovaglie da pic-nic a tinte vivaci.

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Un bramino mi punteggia la fronte con della polvere bianca. Dopo dieci giorni di benedizioni del genere, ricevute in tutti gli altri tempi, apprendo con un sorrisetto tirato che si tratta di cenere di sterco di vacca. Cercando di non pensarci troppo, gironzolo a piedi nudi sul granito coperto di ghirigori e pentacoli floreali, mentre mi addentro per un labirinto di corridoi: alcuni sono rischiarati dalla luce, con il soffitto coperto da ritratti di divinità incasellate come su un gigantesco tabellone di Scale e Serpenti; altri sarebbero totalmente immersi nel buio se non fosse per i crisantemi dai mille petali, tinti di verde, rosa e giallo, che brillano sulle nostre teste come anemoni marine, e gli yali (nasuti mostri mitologici) che incombono dai capitelli, con gli occhi grandi e la pelle fluorescente delle creature degli abissi.
Come molti altri tempi visitati, anche questo è dedicato a Shiva (che nella Trimurti indù ha il ruolo di "distruttore", mentre Brahma e Vishnu sono rispettivamente "il creatore" e "il conservatore".) Spesso, come in questo caso, Shiva è accompagnato dalla sua popputa consorte, Parvati.
Sperando mi porti fortuna, lascio la rosa sotto un bassorilievo, scuro e unto di burro e spezie dai fedeli, che ritrae appunto i Brangelina del pantheon indù. Qui i due si fanno chiamare Sundareswarar, "il bel signore" e Meenakshi, "la dea dagli occhi di pesce" (si vede che in India è considerato un complimento.)


Donne a Kanchipuram: maldestri tentativi di imitare Steve McCurry. 
La loro divina luna di miele, di cui abbiamo seguito l'itinerario, è iniziata a Kanchipuram, una delle sette città sacre dell'induismo, dove i due si sono uniti in matrimonio, sotto un albero di mango che, secondo la tradizione, continua a rigenerarsi da millenni. Come succede a molte coppie, però, non sempre Shiva e Parvati condividono gli stessi interessi: lui, per esempio, se ne va da solo a ballare a Chidambaram, località dal nome piuttosto musicale che per gli indù è nientemeno che il centro dell'universo. Qui si estende l'immenso e incandescente cortile del tempio che fa da pista da ballo a Shiva nelle vesti di Nataraja, "signore della danza". Il titolo se l'è conquistato dopo aver umiliato la spaventosa dea Calì sollevando la gamba all'altezza della fronte con la disinvoltura di Heather Parisi.

Tempio di Shiva Nataraja a Chidambaram
Ciò che più mi affascina delle divinità indù è il loro allegro bipolarismo. Shiva ne è un perfetto esempio, col suo essere al contempo virile e femmineo, yogi assorto e danzatore estatico, rigoroso asceta e seduttore dall'incontenibile potenza sessuale. Il dio che ha per simbolo una pietra dalla forma fallica (il lingam) è lo stesso che incenerisce col suo terzo occhio il dio dell'amore, Kama, colpevole di averlo infastidito durante la meditazione, per poi farlo rinascere, su richiesta di Parvati, dalle sue ceneri: c'è un tempo per la meditazione e uno per l'amore. In questo sistema religioso, mi sembra di capire, la rinuncia è solo momentanea, significa rimandare a un momento più opportuno, per godere pienamente ora dell'introversione, ora del piacere.
Come avrete capito, sono lì lì per convertirmi. Magari mi faccio anche bramino, visto che hanno la mise più comoda e discinta di tutti: non indossano praticamente niente, se non una sottile cordicella a tracolla sul petto e un dhoti, spesso coi lembi ripiegati all'interno (effetto "pannolino" di Mowgli, per intenderci.)



Il tempio di Shiva a Thanjavur 
30 maggio, Alappuzha (o Alleppey). Il tragitto in pullman previsto per questa mattina è  piuttosto lungo, e la pazienza di Gandhi (l’autista, non il Mahatma) - che si mostra disposto a inchiodare in mezzo alla strada ogni cinque minuti per lasciare che mio zio fotografi un nibbio bramino, un martin pescatore o un’egretta - minaccia di rendere il viaggio infinito. 
Tra uno scatto e l'altro, dopo aver evitato un paio di incidenti probabilmente mortali, ci lasciamo alle spalle le campagne del Tamil Nadu ed ora ci inerpichiamo sulle verdi alture del Kerala. Un gruppetto di donne, il sorriso messo in ombra dai cappelli a punta, salutano con la mano dalle piantagioni di tè. Più che campi coltivati sembrano ordinati labirinti vegetali, ma con le siepi ancora troppo basse perché ci si possa smarrire.
Facciamo un'azzardata sosta a metà di una tortuosa strada di collina. Il pepe nero si attorciglia sui tronchi degli alberi e, nascosta nell’ombra del sottobosco, scopriamo anche una sensitiva, una piantina che richiude timidamente i suoi denti di pettine non appena viene sfiorata (“Fa namastè con le mani” ridacchia Gandhi.) Sorbiamo un caffè lungo come il Mahabharata su una veranda sospesa sul rigoglio della foresta sottostante. Due pendii verdi si incastrano l’uno nell’altro davanti a noi, il primo così vicino da poter contare gli alberi sulla cresta, mentre sul secondo grava un velo di foschia argentea.

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Raggiungiamo la laguna di Alleppey che è quasi mezzogiorno. La casa galleggiante ci aspetta ormeggiata, con il corno nero della prua che gli dà l’aria vagamente minacciosa di uno scarabeo rinoceronte. Un membro dell’equipaggio mi porge la mano mentre allungo una gamba cercando di non guardare l’acqua sotto di me e salto giù sul ponte. Qui, all’ombra del tetto di bambù, è stato messo insieme un piccolo salotto. Il cuoco, un tipo occhialuto dal sorriso untuoso e il dhoti blu scuro, ci serve dei cocchi da succhiare, mentre l’uomo che ci ha aiutato a salire va a prendere posto davanti alla ruota del timone.
Per un po' mi metto a curiosare per la barca, sentendomi irrequieto. Prima spalanco una porta-finestra che si apre  direttamente sull’acqua verde. Osservo per un po' i riflessi serpeggianti del sole: sono attratto dall’idea di poter piombare in acqua con un solo passo. Poi però l’istinto di conservazione mi suggerisce che farei meglio a sprofondare, invece che in acqua, su uno dei divani, cosa che in effetti mi risolvo a fare. Tuttavia mi rialzo quasi subito – la pelle screpolata e appiccicosa lascia andare il mio sedere con una certa riluttanza -, passeggio avanti e indietro per il corridoio delle cabine e torno in salotto, dove contemplo per un po' una bruttissima immagine religiosa appesa sotto un'orologio a muro: è un ologramma che mostra il volto della Vergine o di Cristo a seconda di dove si trova l’orripilato osservatore, e io faccio in modo di soffermarmi nel punto in cui le due figure si sovrappongono nel ritratto di una donna barbuta.
Intanto un sussulto della barca ha annunciato la partenza e ora scivoliamo lentamente per la laguna, che ha l’aspetto di un fiume largo e placido. La vista dalla prua, su cui batte forte il sole, è ostruita dalle schiene dei miei compagni di viaggio, curvi oltre le ringhiere e con gli occhi che sono ormai un tutt’uno con gli obbiettivi fotografici. Così mi metto a guardare il panorama saltando da una porta-finestra a all’altra, le mie postazioni preferite perché vagamente pericolose: su entrambi i lati fili di palme si specchiano sulla superficie smerigliata dell’acqua. Su un riva un bambino sguazza allegramente col papà, vicino al bordo di pietra della riva, mentre dalla sponda opposta un ragazzino vuole mostrarmi quant’è bravo a tuffarsi. Diverse case galleggianti simili alle nostre ci fiancheggiano o ci vengono incontro, brulicanti di passeggeri e fiorite dei loro complici saluti con la mano.
Dopo rigirato nel piatto quello che il cuoco di bordo ha volenterosamente definito "pranzo" (una coppa di riso scotto, condito con irriconoscibili verdure piccanti e nugoli di mosche), scendiamo sulla terraferma per una passeggiata lungo la strada sterrata che fiancheggia il canale. Palme di varia specie ed altezza ombreggiano il cammino, dove, per un bel tratto, incontriamo solo villette, strette le une alle altre, e tutte di colori sgargianti, spesso combinati in coppia - l’arancio monaco-buddista e il viola settimo-chakra, il turchese fondo-di-piscina e il verde uvaspina. Proseguendo le abitazioni si fanno via via più umili, se non proprio pericolanti. All’ingresso di una di queste un bambino seminudo e impolverato striscia le gambe e il ventre sulla terra rossa reggendosi sulle braccia, nella posizione del serpente, e ci guarda con un’espressione accigliata. Superiamo una coppia di galline fulve che ci sculettano davanti e da una sgocciolante cortina di capelli neri ci appare il sorriso di una ragazza, che se ne sta china, dopo lo shampoo, a metà di una piccola gradinata terminante nell’acqua. Pochi passi in avanti, e seguo con lo sguardo una barca che procede adagio, in bilico sul filo del bucato che una donna ha teso tra due manghi e caricato di magliette colorate, a mo’ di festone.



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La strada intanto comincia a restringersi, finché non si riduce a una galleria, formata da un lato da una lunga parete punteggiata dal magenta dell’ibisco e dall’altro da una fila di manghi, i tronchi obliqui sull’acqua. In fondo a quell’angusto passaggio intravediamo un gruppetto di donne ridacchianti che ci vengono in contro e dobbiamo sostare qualche minuto per lasciarle passare.
Al di là del tunnel, in un praticello al lato del sentiero, una capretta bianca è stata legata ad un arbusto. Mi fermo un attimo con l'intenzione di accarezzare il suo muso, ma la vista delle pupille rettangolari mi dà improvvisamente i brividi, e così mi limito a sfiorarla appena sulla testa, col braccio testo tanto quanto la cordicella crudelmente corta che la tiene prigioniera. Poco più in là ce n'è un'altra, nera, anch'essa legata ma ad una palma, e con almeno la consolazione di una splendida vista sulla laguna. Di tanto in tanto si scambia un belato con la bianca, tentando inutilmente di avvicinarsi.
Il pomeriggio, una volta tornati sulla casa galleggiante, scivola poi pigramente come la nostra crociera, con lo sciabordio ipnotico dell’acqua e le fusa del motore come sottofondo, mentre alterno un morso di banana fritta a un sorso di legnoso tè in bustina. Sospiro sulla mia tazza fumante e appoggio negligentemente un braccio alla ringhiera del ponte, e così resto per un po’ a guardare pensieroso il giacinto d’acqua, che lambisce lo scafo col suo manto di foglie e rabbrividisce di continuo alla corrente, mentre il cielo si sforza di imitarne l’esatta tonalità di lilla dei fiori. Dalla barca vicina si sente la musica, il chiacchiericcio e gli schiamazzi di una famiglia piuttosto numerosa riunita davanti a un televisore, su cui lampeggiano ballerini in abiti cremisi e oro.
Col calare della sera e dei veli delle zanzariere, il salottino del ponte si trasforma in un’afosa sala lettura, iniettata dal bagliore azzurrino delle lampade fulmina-insetti, finché pian piano non ci ritiriamo tutti nelle nostre cabine. 
Sotto le coperte mi metto ad ascoltare i versi di uccelli sconosciuti. Grida, squittii alati, mantra fragorosi, pernacchie da giocattoli di gomma, giri di raganelle (gli strumenti). Alcuni sembrano gemiti imploranti, a cui rispondono risatine ritrose. Su tutti, però, domina uno stridio collettivo, continuo e disperato, della cui origine penso sia meglio non indagare: come di ratti intrappolati nelle viscere di un sacco, che si scavalcano e si camminano addosso.

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31 maggio, Kochi (o Cochin). Il teatro, una piccola sala di legno scuro, è pervaso da un piacevole brusio multilingue mentre gli attori, tutti maschi e a petto nudo, finiscono di truccarsi a vicenda. Uno di loro è seduto in un angolo del palcoscenico e attacca una raggiera di vibrisse di carta bianca al suo collega, che se ne sta sdraiato, il volto già tinto di verde pisello. Un altro, che dovrebbe interpretare la parte della donna, siede un po’ in disparte controllando da uno specchio di legno le fasi del trucco che trasformeranno gradualmente il suo faccione in una grande e gialla luna piena.
Forse brandisco con un po' troppa forza il ventaglio di paglia a forma di ‘p’ che ho trovato sulla mia poltroncina, perché finisco per colpire in piena faccia al meno un paio di volte i miei vicini.
Dobbiamo rileggere più volte il libretto dello spettacolo che ci hanno consegnato all’ingresso per tenere bene a mente chi ucciderà chi: per questa sera è prevista la rappresentazione di un episodio particolarmente violento del Mahabharatha. Inganno l’attesa cercando di origliare il vivace e ininterrotto flusso di chiacchiere di un gruppetto di ragazzi spagnoli seduti davanti a noi.
Dopo un quarto d’ora, quando il bramino ha coperto con simboli sacri di farina di riso il corridoio davanti alla platea e adornato di garofani gialli una piccola statua di Shiva danzante che veglia sul palcoscenico, lo spettacolo può cominciare. Per primo appare Faccia-di-Luna-Piena per una dimostrazione della variegata gestualità della danza Kathakali, in cui ogni azione, espressione del viso e gesto delle mani rispecchia un preciso stato d’animo. Difficile non ridere davanti alla buffa mimica facciale dell’attore, che per di più è ingabbiato in un gonfio costume femminile e coperto di gioielli. Gli occhi enormi e sgranati, il fremere di sonaglio delle labbra, il vibrare delle sopracciglia come corde di sitar e i movimenti a scatto della testa: sembra una bambola a grandezza naturale che sia stata posseduta dallo spirito di un serpente.
Con l’inizio della rappresentazione vera e propria, compaiono sul palco anche gli altri protagonisti. Ognuno di loro si muove convulsamente al ritmo assordante dei tamburi, nonostante si trascinino addosso cascate di stoffe che hanno tutta l’aria di essere pesantissime e reggano in bilico sulla testa torreggianti copricapi e aureole variopinte. I costumi, rossi e bianchi, sono talmente simili che il buono, il cattivo e l’aiutante magico sono a malapena distinguibili l’uno dall’altro. Ma immagino sia il perfido Dussasana quello che sta graffiando coi suoi voluttuosi artigli metallici le vesti della povera Panchali (Faccia-di-Luna), ignorando che l’abito della donna è stato incantato in modo che sia impossibile strapparlo via.
Prima che lo spettacolo diventi noioso, ecco che parte il furioso duello tra il principe e il cattivone, alquanto ridicoli nelle loro ingombranti gonne a campana, mentre si picchiano con bastoni rossi simili a maracas e lanciano grida belluine. Infine mi godo l'effetto catartico della deliziosa vista del principe che squarcia il petto del suo nemico, ne estrae le budella e lascia che la moglie si lavi i capelli nel suo sangue.
All'uscita dal teatro ci sorprende l'applauso ruggente del monsone. Dopo un lungo inseguimento, ci ha finalmente raggiunto e ci costringe ad una corsa nel buio verso il pullman. L'acqua talmente fitta e battente che, non so come, riesce ad entrarmi nel naso.
Con questa immagine di purificazione voglio concludere il mio resoconto di questo viaggio, che, più di qualsiasi altro, mi è sembrato essere durato una vita. Una vacanza, infondo, non è una breve vita condensata altrove? Una fulminea reincarnazione di te stesso in un altro luogo?

lunedì 6 luglio 2015

Diari d'India (prima parte)

Ritorno dall'India sentendomi spiritualmente rigenerato e in pace col mondo come Julia Roberts e Alanis Morissette. Mi sembra finalmente di essermi ricongiunto con il mio io interiore (non chiedetemi delle interiora, però.)
Poiché dare un'idea delle sensazioni che si possono provare in un viaggio in India è un po' come cercare di separare i granelli di ciascuna delle centinaia di spezie che compongono una ciotola di curry, ho pensato di proporvi un florilegio degli episodi per me più significativi, delle esperienze multi-sensoriali più intense e delle scene più pittoresche, trascrivendovi alcune pagine del mio personalissimo, segretissimo diario (su cui mio zio, il Cosmopolita, che mi ha portato con sé in questo viaggio, ha inutilmente tentato di mettere le grinfie.) 

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23 maggio, Chennai (o Madras). Il mio primo scorcio d’India è un’immagine di pacata festosità. La spiaggia di Madras, con pretese di deserto, si ostina a lungo a nascondere il mare, così che si è costretti a camminare per un bel po' in un interminabile, dorato spazio metafisico, finché il lento passaggio di un bambino e di un cavallo scheletrico, che guida per le redini, srotola davanti ai nostri occhi la vista del bagnasciuga e dell’acqua grigia. Qui, come fiori in ammollo, si rinfresca una moltitudine di donne in sari: una palpitante barriera di rosso corallo, giallo, arancio, verde e viola. Emaciati ragazzini in costume prendono di petto le onde grigie; ragazze vestite di tutto punto siedono sulla la sabbia bagnata o saltellano ridendo nell’acqua bassa, che si arriccia attorno ai loro piedi bruni come cavigliere tintinnanti; qualche bambino più timoroso si mantiene sul bagnasciuga aggrappandosi alle gonne grondanti di madri, zie e sorelle (ognuna porta tra i capelli trecce di gelsomini, che una volta avvizziti ricadono in tristi e ingialliti chicchi di riso). Nessuno osa spingersi più in là, nella piattezza del mare, preferendo la pulsante e continua benedizione della risacca.
Sulle gobbe della sabbia ancora asciutta un’affollatissima platea si gode quello spettacolo vitale: variopinti e mormoranti ginecei, e accanto fieri gruppi di uomini a braccia conserte, con i loro bianchi dothi (i pareo maschili). In questa zona di confine tra l’arido e l’umido, tra l’immobile contemplazione degli asciutti e il dinamismo dei bagnanti, passiamo noi, inseguendo o incrociando uomini e bambini a cavallo, e venditori con boa rosa shocking di zucchero filato sigillato sulla schiena. La gente sorride ed è ben felice di essere fotografata. La nostra curiosità, d'altronde, è da loro pienamente ricambiata: frotte di ragazzini, sorridendo e oscillando il capo, chiedono di essere fotografati con noi, attratti dal nostro aspetto "esotico."


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25 maggio, Mahabalipuram (o Mamallapuram). Sotto al sole cocente una famiglia d’elefanti, uomini e ogni genere di bestie, accorrono a festeggiare la Discesa del Gange, tutti scolpiti nel granito. L’aria è talmente irrespirabile che davanti a questo bassorilievo mi ritrovo a sperare in un miracolo simile. Un ambulante cerca di farmi comprare un Kamasutra tascabile, forse indovinandomi carente nel campo. Mi sento stordito, tra gli assilli nel creolo pan-turistico dei venditori e lo strombazzare delle motociclette, che schizzano per strada a branchi. Evito per un soffio di essere travolto da una ragazza, che cavalca uno scooter ruggente con il cipiglio della dea guerriera Durga, e un clacson, vicinissimo, mi fa spiccare un salto di spavento. Schiaccio quello che mi era sembrato un sasso nero, ma che subito si rivela una massa morbida e sospetta. Infatti quando trascino via il piede stendo sul ciglio della strada una pennellata verde brillante: fortunatissima, sacra cacca di vacca.
La giornata è stata dedicata ai templi fossili. Spuntano tutti dalle sabbie ardenti, con pagode e pilastri che sembrano doversi polverizzare e seppellirti da un momento all’altro, e bassorilievi in cui gli dei esibiscono una combattività che mi sembra impossibile, anche per un dio, possedere con quest'afa: tipo sollevare una montagna per usarla come ombrello o sbracciarsi (letteralmente) per difendere l'umanità da armate demoniache. La desolazione archeologica attorno alla Grotta della Tigre è appena inverdita da qualche fila di palme di Palmira, con corvi e coppiette all’ombra come unici visitatori.
All’uscita dal sito ci sono due bambini, di non più di dieci anni, a torso nudo e armati, che ci aspettano guardandoci dall’alto di una montagnola di teschi bruciati. A ben guardare sono solo cocchi vuoti e la sciabola che ho visto in mano ad uno di loro è il coltellaccio ricurvo con cui li affettano. Non appena ci avviciniamo ci porgono un frutto aperto, già meta di moscerini, e fanno rotolare giù dalla bocca qualche parola tamil che sembra essere stata già raccolta e rimessa in bocca molte altre volte. La guida ci spiega che vendono nungu, il frutto delle Palmira. Un attimo dopo, dietro sue istruzioni, uno dei bambini taglia via lo scalpo a sette frutti con sette colpi secchi, e li distribuisce, senza nemmeno un sorriso. Gli occhi sembrano essere maturati troppo in fretta, esposti al sole e alla noia.
Il nungu assomiglia a una melanzana compressa, dalla pelle dura e bruno-nerastra, che sfuma nel bianco vicino al picciolo. Una volta aperto rivela un'albedo con tre buchi chiusi ermeticamente da una luccicante membrana gialla. Bisogna affondare il pollice in ognuno di questi orifizi ed affrettarsi a succhiare il fiotto di succo caldo che ne sgorga. L’operazione richiede delicatezza e un’affezione minima alla propria dignità. Con ancora in bocca il sapore dell'uvaspina, amaro come il rimpianto, levo l'indice e spingo in uno dei buchi, forse con troppa energia perché ne scaturisce uno spruzzo altissimo. Cercando di non badare al succhia-succhia generale, mi riparo all'ombra dei fiori gialli di un golden rain tree (ebbene sì, l'albero della pioggia dorata) per assaporare con un po' di privacy il gusto del frutto: ottimo, dolce, come latte e litchi. In pochi sbrodolanti secondi l'ho già prosciugato e lo faccio dondolare, con le dita infilate in ciascun buco, pronto a lanciarlo come una palla da bowling.

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26 maggio, Puducherry (o Pondicherry). Pondicherry mi sembra fiorita e dolce come il suo nome mentre passeggiamo per i viali perpendicolari del quartiere francese. Maestosi alberi si piegano ad ogni angolo per vigilare sul flusso dei motorini e dei tre ruote gialli. Seguo con lo sguardo una donna in sari giallo, seduta in fondo al dorso ricurvo di una bicicletta viola, che supera ronzando il grigio chiaro dei bassi edifici coloniali e si lascia alle spalle una serie di porte celesti. Poi passa sotto un gigantesco flamboyant, coronato di fiammelle rosse e arancio, che l’ha aspettata chino all’incrocio per sventagliarle i capelli con le foglie bipenni, sottilissime, come disegnate con minuscoli tratti d’inchiostro verde. 
Poco dopo la vista di questo dinamico interagire di colori, visitiamo un famoso ashram (un centro di meditazione dove acquisto un libricino sulla reincarnazione) e poi una chiesa coloniale tinta di rosa, la cui unica attrattiva è un corvo irrispettosamente appollaiato a un lampadario. Dall’esterno, mentre aspetto gli altri, posso ancora sentire i suoi aspri versi satanici che rimbombano per le navate celesti. Intanto mi sollevo sulle punte per strappare furtivo un fiore dal frangipani che cresce nel sagrato e mi rigiro tra le mani quella morbida girandola, sui cui petali sono impressi i colori dell’alba: un giallo solare che si diluisce nel rosa chiaro. Emana il profumo più buono che riesca a ricordare.
Tornando al pulmino assistiamo alla buffa scena di una suora che tenta con ogni mezzo, gesticolando e inveendo, di cacciare una vacca dall’ingresso laterale di un convento. L’animale, comodamente stravaccato al centro di un cerchio di spazzatura, la guarda per qualche istante con occhi interrogativi, ma non gli passa neanche per la mente di rinunciare ai privilegi che gli sono stati tributati dalla religione dominante. D’altronde, in una terra dalla spiritualità così affascinante, scegliere il cristianesimo mi sembra davvero un peccato.  


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Lascio il frangipani sul mio sedile, così che tra una tappa e l’altra possa tornare a inebriarmene come un tossico. So che difficilmente troverei odori così piacevoli, fuori. Infatti sotto i tendoni colorati del mercato, nello strombazzante quartiere tamil, l’odore umido delle collane di fiori, delle montagnole di rose e delle coccarde arancio dei garofani d’India si confondono con l'afrore delle spezie e il puzzo dell’acqua putrida e del pesce essiccato. Lì una donna taglia di netto le scabre rotondità chartreuse di una giaca (jackfruit) e ci fa assaggiare uno spicchio, giallo e dal sapore vanigliato, appena corrotto dal ricordo agliaceo dei semi. 
Nel giardino botanico, due ragazze avvolte in sari rosso sangue passeggiano nella luce ambrata del tardo pomeriggio, mentre batuffoli bianchi fioccano a neve dagli alberi di cotone. Il titolo di albero più spettacolare, però, va al sacro baniano, sotto cui Buddha trovò l'illuminazione: qui a Pondicherry ce n'è uno che sembra determinato ad ostruire completamente il cielo. Spande per metri e metri le sue innumerevoli braccia frondute, sostenute nel loro avanzare da altissime radici aeree: delle colonne nodose e spesse come zampe d’elefante.
A proposito di elefanti, al calare del buio ci fermiamo al tempio di Ganesh, il pachidermico dio della fortuna e del superamento degli ostacoli. Paradossalmente, ha per servitore e cavalcatura un topo: l'elefante con la sua mole riesce ad abbattere gli ostacoli, mentre il topo è così piccolo da riuscire facilmente ad aggirarli. Per alcuni, però, il fatto che un elefante cavalchi un topo è un simbolo del dominio della spiritualità sulle meschinità terrene. 
Varcato l'arco d'ingresso del tempio abbandono i miei sensi all’aggressione del caos, della musica e dei colori fluorescenti di pareti, statue, fedeli e fiori. Siamo in piena funzione religiosa, ma c'è tutta la festosità di una fiera estiva, con bancarelle straripanti di gelsomini e fusi di loto rosa al posto dei carretti del pop-corn e dello zucchero filato.
Nella confusione, mi trovo a specchiarmi nell’enorme occhio spalancato di un’elefantessa e sobbalzo, arretrando. Da una targhetta appesa al collo scopro che l’hanno chiamata Lakshmi, come la dea della ricchezza e della prosperità. E' ammaestrata per benedire con la proboscide la testa di quanti fanno un’offerta al tempio. Ignorando la mia ritrosia, mio zio, il Cosmopolita, mi ficca in mano una moneta e mi spinge verso l’animale. La folla si ritrae e mi trovo fronte a fronte con l’elefantessa. La sua è decorata con ghirigori di cenere bianca. Le orecchie flaccide hanno gli orli sdruciti, rosa e a pois grigi. Lascio la mia donazione sull’interno muscoloso del naso, che l’elefantessa ha prontamente avvicinato, e chino la testa, chiedendomi se sia il caso di offrire la mia nuca a un bestione che potrebbe spezzarmi in un attimo l’osso del collo. Mentre attendo la mia benedizione, fisso lo sguardo sulle civettuole, gigantesche cavigliere che le hanno messo, e che inizialmente avevo scambiato per catene. Poi arriva il colpo - non proprio un leggero bussare - di quel pneumatico srotolato, e mi rialzo, ridendo di sollievo.


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28 maggio, Chettinad. “Hai visto dove ti ho portato, nipote?” domanda retorico lo zio Cosmopolita, mentre ammiriamo impressionati dal finestrino la sontuosa villa dove dormiremo questa notteSul candore di base dell’edificio, strisce di blu cobalto fasciano i capitelli delle alte finestre e ne risalgono gli archi, mentre le coppie di lesene agli angoli si sono tirate addosso eleganti tuniche di vernice color terracotta. Questi due colori, blu e terracotta, tornano poi a riempire le lunette, animare i fregi floreali che guarniscono le balconate (ciascuna con un’urna ad ogni angolo) e si inseguono avvolgendo guglie e torrette.
All’interno un’esile ragazza in sari color crema e top porpora ci dà il benvenuto mettendoci al collo dei rosari di perline profumate. Sarebbe bella se non fosse per l’espressione arcigna che il naso all’insù conferisce al suo viso. Allo stesso modo l’ingresso unisce bellezza e cupezza, col suo soffitto di legno scuro a cassettoni e le colonne di marmo nero. I candelabri in vetro di Murano sono spenti, se non per il loro naturale latteo candore da celenterati, perciò l’ambiente è illuminato solo da un cortiletto interno, che si intravvede da una porta centrale, con scene mitologiche minuziosamente intagliate sulle ante, e da finestre interne con persiane verticali. Il pavimento a scacchi è coperto in alcuni punti da tappeti con composizioni floreali rococò, su cui i cuscini alla francese sembrano essere strisciati come bachi da seta. Ci sono tavolini, ognuno con il suo vaso ricolmo di frangipani galleggianti, lucide panche, un orologio a pendolo nero decorato a chinoiserie d’oro, e un banchetto da contabile che funge da reception, a memoria della tradizione bancaria della regione.
Tre gradini ci conducono nella loggia che circonda il cortile, sorretta da colonne di teak birmano, panciute ma con caviglie sottili, su cui fioriscono scuri capitelli intagliati. Dalle tenebre color mogano in cui ci troviamo, una luce angelica, per contrasto, sembra inondare il cortile, sul cui limitare sono state sistemate specularmente, a funerea imitazione di due sedie sdraio sul bordo di una piscina, una coppia di chaise longue di marmo grigio.
Intanto un ragazzo sulla trentina con una camicia arancione, è apparso con sette bicchieri di tè ghiacciato. E' pesantemente zuccherato e profumato di cannella, ma muoio di sete e lo finisco tutto in due sorsi. Una volta rinfrescati la ragazza ci invita a seguirla per un giro della villa, mentre i nostri bagagli vengono portati nelle camere da un trio di forzute donne di mezza età, i ventri cascanti lasciati scoperti dai sari porpora, per le quali a dire il vero mi sento un po’ in colpa.
La nostra guida ci indica i ritratti dei primi proprietari, una famiglia di ricchi commercianti birmani fuggiti dal loro paese d’origine per le continue catastrofi naturali, e ci precede lungo ampli e ombrosi saloni, dove salutiamo i nostri volti sudati in innumerevoli specchi belgi, alziamo più volte la testa verso i soffitti di legno di cui la penombra lascia comunque intuire i colori arlecchineschi delle decorazioni e la chiniamo con la stessa frequenza per percorrere anche con lo sguardo i motivi geometrici e i fiori stilizzati delle mattonelle della vicina Athangudi.
Poi ci arrampichiamo su per un angusta scala a chiocciola e raggiungiamo un piano sgombro e disabitato. Ogni volta la nostra accompagnatrice deve schiudere interminabili persiane, facendo luccicare di pulviscolo il vuoto di queste sale. Ha insistito perché visitassimo subito la villa, prima che faccia buio, visto che quassù non c'è elettricità. Anche così, però, alla luce argillosa del tramonto, mentre seguo in un silenzio esausto i passi veloci di questa burbera figurina, sento addosso il brivido del mistero e mi godo l'atmosfera del posto, che è insieme esotica e gotica... 
Passeggiamo per la terrazza, ai piedi della montagna di tegole rosse del tetto, e ci infiliamo a turno in una stretta torretta circolare da cui si può vedere il villaggio e le risaie tutt’intorno. Riesco a scorgere persino un pavone, che fugge per le campagne facendo ondeggiare la coda-mantello, e una scimmia dal pelo dorato mi guarda da un albero vicino. 
Prima di cena ci intratteniamo sul divano a barca di uno dei tanti salotti. Il tavolino basso davanti a noi è quasi interamente occupato da un tabellone da gioco diviso in caselle colorate, ognuna contrassegnata da un animale, un oggetto o una divinità, sui quali si estendono trasversalmente… “Scale e serpenti” ci spiega il ragazzo con la camicia arancione, che sembra materializzarsi ovunque siamo. “Si tira il dado e si procede da una casella all’altra. Le scale ti portano su, i serpenti ti fanno tornare giù.” Anche lui, come la ragazza che ci ha accolto, è dotato di una tenebrosa bellezza e una cortesia un po’ ruvida, come arrugginita dalla lunga attesa di ospiti. Diversamente da tanti altri indiani incontrati, nessuno dei due sembra abituato a sorridere.
Cominciamo a giocare, sotto la vigilanza del ragazzo, e nel giro di pochi tiri della barretta di metallo che fa da dado, mentre il mio più saggio compagno di stanza ha già risalito i virtuosi pioli di una scala, la mia conchiglia-pedina è finita per tre volte di seguito nelle spire del primo serpente, scivolando al punto di partenza. Sarebbe un gioco divertente, se non fosse tutto così fastidiosamente allegorico.
La cena viene servita sotto al soffitto a tronco di piramide di una sala dall’illuminazione sepolcrale. Non sembra ci siano altri ospiti e occupiamo il tavolo centrale, apparecchiato con una patriottica tovaglia bianca, verde e arancio. Siamo circondati, oltre che da colonne di marmo di Carrara, anche da un cerchio di camerieri pronti ad anticipare ogni nostro bisogno. Una presenza ectoplasmatica, la loro, che può risultare un po' ansiogena. Il nostro mantra "Not spicy, please" è rimasto inascoltato, come in ogni ristorante, benché in ognuno il cameriere di turno alle ordinazioni ci abbia sempre sorriso dondolando la testa e giurando che i condimenti sarebbero stati a dir poco ospedalieri. Questo di far oscillare la testa da destra a sinistra, come pupazzi bobblehead, è un gesto che, a seconda del sorriso cui è abbinato, può assumere i significati più svariati, da "sì, certo" a "non saprei", da "forse, vediamo" a "no, mi dispiace."
Prima di andare a letto, facciamo una passeggiata per il villaggio. Il ragazzo in camicia arancione ci manda alle calcagna un baffuto poliziotto affinché ci scorti per le strade sterrate, deserte e completamente buie. Esperienza, questo giretto con la guardia al seguito, che fa molto Edward Morgan Forster. Anche al lume della torcia, comunque, non c’è molto da vedere, e ce ne torniamo indietro, delusi, dopo aver incontrato solo un capannello di mucche, che sono rimaste parcheggiate sotto la luna, costringendoci a insinuarci tra loro, mentre lancio occhiate apprensive alle punte dei loro manubri d’osso.   
Mi soffermo un po' sul ballatoio che si affaccia sulla piscina, prima di andare a letto. Mi appoggio alla balaustra ad archi moreschi e guardo un po' il cielo. E' perfettamente diviso a metà. In una galleggiano tante nuvolette, evanescenti e palpitanti, separate tra loro solo da sottili crepe di blu (mai visto nulla di simile: sembra che la via lattea stia cagliando.) L’altra metà invece è blu e inscalfibile come uno zaffiro. In questo momento, tutto, intorno a me - lo scorcio di stradina che si intravede oltre il gazebo e il muro; la silhouette magrittiana dell’albero di mango contro il cielo stellato da presepe; la elle del ballatoio, col suo tetto squamato d’argilla – tutto mi sembra parte di uno scenario smontabile, finto come sembra finta la vita in vacanza.

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Continua...

venerdì 15 maggio 2015

"Il Racconto dei Racconti": lo slow-fantasy di Garrone


Anche se non me le ha chieste nessuno, ecco sei buone ragioni per andare a vedere Il Racconto dei Racconti:

1. Perché il fantasy USA è più stecchito di questo drago
Del logoro, viziato fantasy hollywoodiano francamente non ne posso più. Pur di rimodernare una fiaba trita e ritrita ormai si butta nel calderone qualsiasi cosa, dai rimasugli di Tolkien a fluttuanti animaletti fluorescenti di dubbio gusto (vedi Maleficent e le varie Biancaneve.) Guardate questo bel drago marino morto, invece! Mi ricorda un axolotl, quelle adorabili salamandre eternamente giovani (possono rimanere allo stadio larvale per tutta la vita) che in natura hanno benedetto con la loro presenza solo il lago messicano di Xochimilco, che però purtroppo è sempre più inquinato. 
A differenza di tanti suoi dopati fratelli sputafuoco, il mostro albino di Garrone è schivo, nuota in acque torbide ed ha l'aspetto primordiale di una creatura che è sopravvissuta al diluvio universale ma non alla barbarie dell'uomo, come gli ambientalisti temono possa accadere anche al sorridente axolotl. Mi piace pensare che anche il regista abbia preso spunto da questo curioso animale, il cui nome  impronunciabile, tra l'altro, in nahuatl significa "mostro acquatico". Gliel'avrà suggerito Salma Hayek, che è messicana?

No, non è una giovanissima Romina Power smarrita nell'Alta Murgia.

2. Perché dopo lo slow-food, è tempo di slow-fantasy
Garrone ha scelto di battere un sentiero, quello del fantasy, che in pochi italiani hanno avuto il coraggio di seguire. Possa Il Racconto dei Racconti inaugurare la stagione del fantasy mediterraneo, un fantastico che contrapponga ai patinati colossal d'oltreoceano un incanto più autentico, senza troppi fronzoli e riverniciate di modernità. Perché se il fantasy è sempre stato considerato una primizia dei climi freddi o una rampicante che prospera solo sugli schermi verdi di Los Angeles, non c'è motivo per cui non possa crescere tra le nostre rocce lichenose, fiorire nelle nostre assolate colline o all'ombra dei nostri castelli. 




3. Perché non ci sono (solo) i soliti noti
Fatta eccezione per Vincent Cassel, che recita nella parte di se stesso, e l'onnipresente Alba Rohrwacher, la scelta del cast, come c'era d'aspettarsi da Garrone, non è affatto banale: c'è sì l'ardente bellezza di Salma Hayek, perfetta nei suoi abiti regali, che fanno tanto Isabella di Castiglia, ma anche volti grotteschi, che ricordano gli sdentati sorrisi dei contadinotti brugheliani o i caprichos di Goya già citati altrove. 
Quale yankee, poi, avrebbe scelto per il ruolo dei principi, nati dal cuore di un drago, quei due eterei e rachitici ragazzini, quei due Albini Rohrwacher, quando poteva piazzarci due bei figoni dagli addominali lucidi e scolpiti? 
La vera rivelazione, per me, però, è stata la principessa Viola, Bebe Cave, anche lei una bellezza che poteva essere canonica solo nel Seicento, ma che ai miei occhi si è imposta come il volto più memorabile del film, grazie ad un'espressività che riflette meravigliosamente la luce tragica scelta da Garrone per questo non facile riadattamento.




4. Perché ci sono libri migliori di Cinquanta sfumature da cui trarre un film 
Io di Giambattista Basile e del suo Lo cunto de li cunti o Lo trattenemiento de peccerille (anche detto Pentamerone) non avevo mai sentito parlare prima dell'università. Eppure questa raccolta di fiabe 
seicentesche rappresenta una pietra miliare della cultura europea. Include le primissime versioni di Cenerentola, La bella addormentata e Raperonzolo, ed è a quest'opera che hanno guardato con 
ammirazione tutti i fiabisti successivi, dai Grimm ad Andersen. Era ora, dunque, che qualcuno decidesse di riscoprire questo tesoro sepolto, e forse non poteva esserci epoca migliore di quella neo-barocca in cui viviamo per farlo: non siamo forse smarriti in una realtà labirintica che non riusciamo bene a comprendere, come l'uomo barocco? E non è forse vero che i prodotti artistico-culturali più recenti si reggono in piedi solo fintanto che sono sostenuti da più antiche fondamenta, come avveniva per la letteratura barocca, infarcita com'era di citazioni?



5. Perché è una fiaba genuina e sugar-free
Tornando al Pentamerone, Garrone non ha saputo o non ha voluto rendere sulla pellicola la straordinaria verve comica di Basile, ma ha calcato i toni drammatici e si è soffermato con gusto barocco sugli aspetti più spaventosi e macabri della narrazione popolare. Allo stesso modo ha rinunciato a riprodurre la pirotecnica, originalissima ricchezza linguistica del napoletano, preferendo dialoghi rarefatti e una sceneggiatura brulla come le solitudini che circondano Castel del Monte.
Ciononostante, non si può non riconoscere al regista il merito di aver tenuto fede alla primordiale brutalità, alla violenza e all'irrazionalità della fiaba, che torna alla sua purezza archetipica, senza zuccheri aggiunti. Pur cambiandone significativamente i finali, nonché i nomi di alcuni dei protagonisti (d'altronde "principessa Viola" suona meglio di "principessa Porziella" e "Elias e Jonah" sono più international di "Fonzo e Candeloro"), Garrone riesce a non stravolgere troppo le tre storie selezionate (La cerva fatata, La pulce e La vecchia scorticata), che rappresentano un trittico tutto al femminile: la Fanciulla e il suo traumatico risveglio dall'infanzia all'età adulta, la Madre che deve imparare a distinguere l'amore dal possesso, e infine la Vecchia alle prese con la più amara delle lezioni, ovvero che il corso dell'esistenza non può essere cambiato.



6. Perché un sequel avrebbe senso
Le fiabe del Pentamerone sono ben cinquanta, perciò è giustificabile che Garrone abbia fatto cenno alla possibilità di girare un secondo episodio, o magari una serie. Forse, dunque, la storia continua...

martedì 14 aprile 2015

Costruisci il tuo castello


E c'è ancora, ai margini della Foresta Nera, un paese dai tetti spioventi dove i narcisi crescono sui cigli delle strade come margherite e regali falchi se ne stanno appollaiati sui segnali stradali come comunissimi piccioni. E' un paese, questo qui, in cui i castelli crescono come funghi, e se perdi portafogli e macchina fotografica in metropolitana la polizia non soltanto te li ritrova, ma te li spedisce a casa. Qual è questo posto di fiaba, chiederanno i miei piccoli lettori? E' una città chiamata Stoccarda, là dove il vostro papà vi dirà hanno scalpitato i cavalli della prima Porsche e vostra mamma ricorderà essere nato Hegel. Le ali tremebonde di un aeroplano mi hanno trasportato proprio lì giusto pochi dì orsono per far visita a tre passerotti che, nell'albero genealogico della mia famiglia, cinguettano allegramente sul ramo parallelo al mio.
Al mio arrivo i cuginetti italo-tedeschi mi salutano con abbracci, baci e sorrisi: quello di Marco, sette anni, con un oblò al posto di un incisivo; quello ancora tutto da latte di Alice, di quattro anni; e quello quadridentato di Bianca, che ha a malapena un anno. L'ultima arrivata è la primissima a venirmi incontro sulle gambette malferme, con la sua testolina tonda come un pomelo (frutto di cui non potrò mai più fare a meno) e gli occhioni cigliuti e disneyani. D'altronde non poteva che esserci lei a capo del comitato di benvenuto, visto quanto adori fare ciao con la mano, di continuo, un gesto che assume a seconda del contesto vari significati: da saluto affettuoso ad augurio pasquale, da richiesta d'attenzione a risposta ironica a domande scomode. Si è guadagnata per questo il soprannome di Buongiorno-a-tutti, marchio già registrato per un parroco del nostro paese, famoso per farsi trovare sull'uscio della chiesa alla fine di ogni messa per contare, con la scusa dei saluti, le pecore del suo gregge. Non appena la isso in braccio, la piccolina non perde l'occasione di allargarmi il colletto della maglietta per sbirciare con curiosità il mio décolletè, che però scopre - con un certo disappunto - essere sprovvisto di mammelle. La piccolina però non si dà per vinta e più volte ha ritenuto di dover dare un'altra occhiata, tanto per esserne sicura.
Più fortunati Marco e Alice, che sono riusciti a spremere fino all'ultima goccia le mie energie e la mia inventiva, coinvolgendomi nei loro giochi e arruolandomi per le loro guerre, per cui ogni omino della Lego, ogni soldatino, cavaliere, pupazzetto e peluche è chiamato a leva obbligatoria. Per dovere di cronaca, devo riportarvi un breve resoconto dalla trincea.

Il castello di Lichtenstein, non troppo lontano da Stoccarda.
Il primo giorno c'è stato uno scontro di proporzioni omeriche tra lo schieramento dei draghi e quello dei dinosauri (Marco ha accettato con divertita rassegnazione le mie infiocchettature narrative, come la mia decisione di porre fine al conflitto col matrimonio tra l'ultima draghessa superstite e l'ultimo dinosauro ancora in vita.) Poi è stata la volta dell'assedio del castello di Marcondirondello da parte dello sparuto esercito del sultano Al Raffi (non avendo una corona, ho dovuto improvvisare un turbante con la sciarpa), con tanto di epico corpo a corpo tra il re Marco, a cavallo del temibile drago Furore, e il sovrano orientale, in groppa alla sua tigre albina gigante Neve-Nel-Deserto. Ogni tanto lo scontro è sospeso da qualche piccola intromissione di Bianca, che gattona sorridente nella stanza ("Ciao!"), con conseguenti proteste di Marco, che teme di veder distrutto il castello da lui così meticolosamente edificato. Qualche volta tuonano dall'alto anche gli avvertimenti dell'inquilino del piano di sopra, detto Tamburino per l'antipatica abitudine di battere il piede sul pavimento quando i peana e gli urli di guerra volano un po' troppo in alto.




Il bellissimo giardino zoologico e botanico Wilhelma di Stoccarda,
costruito nel 1919 in stile moresco. Oltre alle specie che vedete,
è famoso per le famiglie di primati e le impressionanti sequoie americane.
Per il terzo combattimento ci siamo affrontati in una battaglia navale: l'enorme galeone di Marco contro il mio misero vascello dall'equipaggio improvvisato (un'istruttrice di fitness di Playmobil, un paio di omini acefali, un sub e una Polly Pocket in costume da bagno.) Ben presto, però, il gioco - soprattutto per causa mia - ha lasciato spazio alla comica odissea individuale di Shirley, la bambola in bikini che si ritrova suo malgrado coinvolta nel conflitto quando il suo fidanzato (il sub) viene rapito dai pirati durante la loro vacanza romantica in yatch. Ci tengo ad assicurarvi che alla fine Shirley, anche grazie all'aiuto della fedele otaria Cotoletta, è riuscita a ricongiungersi al suo amato Sean, sfuggendo a squali e filibustieri.
Al quarto scontro bellico, rimasto a corto di idee, ho dovuto costringere un altrimenti pacioso cuscino a forma di principe ranocchio ad interpretare il ruolo del perfido, folle re Frog Magog, sovrano di tutti i rettili e gli anfibi, per dare al coccodrillo e al rinoceronte di peluche acquistati dallo zoo un nemico da sconfiggere a suon di cornate e morsi. Un personaggio, questo, che è stato accolto con un buon successo di pubblico.
Una volta messo a posto il castello-giocattolo, per migliorare le mie tecniche di fortificazione, i bambini mi hanno permesso di visitare con loro il castello di Lichtenstein, arroccato su uno strapiombo. Nei nostri pomeriggi, però, hanno svettato anche le guglie del castello della Disney e il luccicante palazzo sottomarino di Ariel, senza contare poi le scorribande per il castello di Hogwarts: nei momenti di riposo Marco entra nella mia stanza, dove mi trova arenato sul letto, e occhieggia con un sorriso eloquente al libro sul comodino, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, che mi ascolterà leggere con gli occhi sgranati.

Oltre all'amore per il disegno e la scrittura, ho scoperto di condividere
con mia zia anche la passione per le chincaglierie a tema suino, visto che
siamo stati i visitatori più entusiasti del Museo del Maiale di Stoccarda.
Ci sono teiere, quadri, salvadanai e tante altre divertenti "porcherie" di 

porcellana. Vi risparmio le immagini del diorama di Jurassic Pork
con i dinosauri dal grugno di porco, ma io un termosifone a forma di Babe
 a casa mia lo terrei ben volentieri.
"Rhafaele... ma quanto tempo rhimani con noi?" mi chiedono i bambini di tanto in tanto, a turno. "Perhché solo una settimana?" protesta ogni volta Alice. "Perché se non torno a casa la mia mamma e il mio papà piangono" mento spudoratamente ogni volta. Alice ogni volta piega di lato la testa, fa un sorrisetto compassionevole ed emette un triste "Oh". La questione della durata della mia permanenza ha continuato a rappresentare per loro un interrogativo angoscioso, insieme a dilemmi quali "Ma chi vincerebbe in una lotta tra un coccodrillo e un rinoceronte?" Sono rimasti sul chi vive per un bel po', come temendo di vedermi sparire in una nuvola di fumo. Quando, dopo la cena del secondo giorno, il papà dice loro di salutarmi ed andare a dormire, Marco posa l'arricciaspiccia, solleva dal piatto gli occhi da cerbiatto ed esclama: "Perhché?! Domani deve parhtire Rhafaele?", la voce incrinata da una nota di panico. "No, dovete solo darmi la buonanotte" lo rassicuro, sbocconcellando il mio spicchio di pomelo. Alice, in ogni caso, non ne vuole sapere di andare a dormire, non senza di me. E così mi arrampico sul loro letto a castello per un'ultima storia, come faceva il loro papà con me, intrattenendomi con buffi racconti, quasi tutti incentrati sul meteorismo. Una sera me la sono vista brutta, con Alice che versava un mare di lacrime perché voleva giocare agli indovinelli e Marco che singhiozzava di voler ascoltare un mito greco dal libro che gli ho regalato. Stavo per arrendermi e cominciare a piangere anch'io, quando la soluzione mi ha illuminato a giorno la mente come un fulmine di Zeus: "Bambiniiii, volete sentire un mito greco con un indovinello dentro?!" Nel vederli asciugarsi in fretta le lacrime e lasciarsi andare in gridolini entusiasti, ho sentito dentro di me un ruggito di vittoria. Mi sono guardato intorno come in cerca di qualcuno che mi porgesse una laurea ad honorem in pedagogia. Perdonatemi la scarsa modestia, ma non credo di essermi mai sentito così soddisfatto in vita mia. I bambini, col loro multiforme ingegno, hanno risolto in un "soffio di Eolo" l'enigma della Sfinge. Io naturalmente ho dovuto glissare sulle dinamiche familiari più scabrose della storia: "... e così la Sfinge si gettò dalla rupe ed Edipo riuscì ad entrare nella città di Tebe, dove... ehm... ritrovò i suoi veri genitori... ehm... e vissero per sempre felici e contenti."
Una volta sotto le coperte, Marco dorme il sonno del condottiero vittorioso. Alice invece è più inquieta. Durante uno dei nostri primi pigiama party rotola verso di me, nel dormiveglia. "Io c'ho una lingua" sente l'esigenza di informarmi. Al che le rispondo: "Anch'io c'ho una lingua, Ali." Rassicurata, si gira di nuovo. La notte seguente mi sussurra all'orecchio un segreto: "Sei bello." "Grazie. Tu sei bellissima." Soddisfatta, si riavvolge nella coperta frusciante. La sera successiva l'affligge il pensiero della scarsa solidarietà tra donne: "Ma... ma... perhché la Rhegina voleva essere perh forhza la più bella?" si chiede, accorata. "Non poteva esserhe la più brhava? Biancaneve la più bella e lei la più brhava?" Il ragionamento non fa una piega e faccio fatica a placare i suoi dubbi. Mia zia era decisamente più brava quando si trattava di aiutarmi a risolvere le mie "crisi esistenziali" (quando ancora indossavo il grembiulino delle elementari. Ma anche ora...)
"Rhafaele?" mi chiama Alice, dopo un po'.
"Sì, amore?"
"Io devo andarhe all'asilo domani?"
"No."
"E tu devi parhtirhe domani?"
"No."
A questo punto prorompe in un pianto disperato.
"Che succede, Ali?"
"Io-io volevo andare all'asilo per far vedere... per far vedere alla mia... alla mia amica... la... la ferita che mi sono fatta... sul... sul ginocchio!"
Un paio di baci e carezze, però, le fanno dimenticare ben presto queste preoccupazioni e si riaddormenta. Solo che lei e suo fratello vanno a letto alle nove, così che ogni notte aspetto che l'Omino del Sonno sparga sui loro occhietti la sua sabbia magica per sgusciare fuori dal letto, sentendomi decisamente in colpa. Una volta fatto giorno, però, Alice non dà mai segno di prendersela. In fondo a loro basta una sentinella che vegli sulle merlature del castello, almeno finché il buio non fa più paura. Mentre l'abbraccio e ascolto il suo respiro lieve, penso allo straordinario potere di questi piccoli elfi, per cui anche il più gracile degli scudieri è disposto a indossare l'armatura ed andare incontro ai draghi (o, come nel mio caso, semplicemente salire su una bicicletta, una cosa che non mi sognavo minimamente di fare). Occuparsi di loro, giurare a Marco che il suo nuovo taglio di capelli non lo fa assomigliare a Draco Malfoy, accompagnare Alice a lavarsi i denti, aiutarli a fortificare i confini del loro regno, combattere con loro ogni esercito invasore, farli divertire, coccolarli, confortarli, dare loro un lieto fine: non c'è migliore distrazione dalla nostra affannosa, personale ricerca di un "e vissero felici e contenti."
Prima di ripartire infilo i loro disegni (l'uovo di Pasqua di Alice e il drago sputa-"plasma" di Marco - ma cos'è poi 'sto plasma? Quello dello schermo tv?) vicino alla carta d'imbarco e i documenti, nella tasca delle cose importanti. E per il viaggio mi porto dietro anche una gran bella scorta di ricordi felici. Non si sa mai, nel caso là fuori dovessi incrociare un Dissennatore...

Illustrazione di Lesley Barnes

giovedì 26 marzo 2015

Una serie di accademici accadimenti IX - Chiamatemi (un) dottore


Giocare d'anticipo non è mai stato il mio forte. Anzi, di solito avere i minuti i contati è l'unica cosa che mi spinga all'azione. Stranamente, però, i dettagli della mia laurea erano ben chiari nella mia mente sin dall'immatricolazione. Prima di tutto avevo già progettato, sfornato e guarnito la torta con la sac-à-poche della mia immaginazione. Citando me stesso in un post di ben tre anni fa, al "primo piano, color giallo grano, con delicati papaveri rossi e uno zuccheroso Don Chisciotte con la lancia di cioccolato fondente puntata contro giganteschi mulini a vento di marzapane" ho pensato di aggiungere, a rappresentanza della cultura anglofona, un altro complessato letterario, Amleto, con l'immancabile teschio in mano, seduto in malinconica meditazione sulle merlature del secondo piano, modellato a forma di torre. Sin dalle prime bozze il principe shakespeariano indossa una casacca blu, una calzamaglia rosso scuro e un cappello con piuma in tinta, esattamente gli stessi colori che avrei indossato io. Perché blu e rosso scuro è stato il fortunato accostamento che ho scelto per il mio primo esame e che è diventato poi, insieme all'immancabile spilletta porta-fortuna di Topolino, la bicromatica uniforme di tutti quelli a seguire, fino all'ultimo. Non so perché l'università, che dovrebbe aprire e illuminare le menti, in realtà tiri fuori sempre il lato più superstizioso delle persone. Di tutti i rituali magico-sciamanici per ingraziarsi gli astri, però, il migliore resta quello di mia sorella, che ad ogni esame pretendeva di indossare - pena una terribile sciagura - un outfit fresco d'acquisto. Mica scema.
 Avendo selezionato anni prima l'argomento della tesi (i racconti fantastici di Dino Buzzati), ho cominciato al più presto ad avventurarmi nel dedalo delle biblioteche universitarie. Ad un bibliotecario ho dovuto fare lo spelling di "Einaudi", cognome che, se non per il presidente, avrebbe dovuto conoscere anche solo per la casa editrice. Riuscito per miracolo ad ottenere i libri, mi sono appassionato agli studi dei teorici che si sono interessati al tema del fantastico in letteratura, soprattutto Tzvetan Todorov, critico le cui pagine ho compulsato così di frequente da valutare attentamente se era o no il caso di invitarlo ai festeggiamenti. In momenti di delirio ho persino rimodellato la canzoncina de Il mio vicino Totoro col suo nome:
♪ ♫ Todorov, To-do-rov! Todorov, To-do-rov! ♫ 
Ovviamente prima ancora di portare a termine il mio lavoro mi ero già premurato di scegliere la giusta tonalità di rosso per la copertina in pelle, in modo da abbinarla alla mise del gran giorno. Grazie all'aiuto della commessa Marcella ho scelto un bel completo a quadri, naturalmente blu notte e bordeaux, che credo di aver visto indosso anche a quell'icona di stile che è Fabio Fazio (in effetti davanti alla commissione ero teso come se avessi dovuto intervistare Madonna.) "Sembri Battiato! E anche un po' Benigni! Ah, ed Enzo Miccio... e un po' Marco Mengoni!" ha esclamato entusiasticamente mia madre, decisamente maldestra quando si tratta di fare complimenti.
Nel frattempo, nella mia frenesia da sposina maniaca, avevo fatto presente ad amici e parenti che un bel mazzo di fiori non è un omaggio gradito solo alle donne, e ho colto l'occasione di party, ricevimenti e aperitivi per buttare lì con non chalance informazioni di vitale importanza, tipo il mio odio per i girasoli. Immaginando la vostra apprensione al riguardo, vi rassicuro anticipandovi che infatti ho ricevuto solo bellissimi anemoni e amarillidi scarlatte, senza alcuna traccia di quelle ingombranti eclissi floreali che proprio non sopporto!
Avevo opportunamente preventivato anche eventuali indisposizioni o spiacevoli imprevisti estetici come quel maledetto herpes che spunta fuori nottetempo e ti sorprende al risveglio quando ormai non c'è più niente da fare. Così avevo già stabilito tempo addietro di imburrarmi la bocca con una noce di Aciclovir, cosa che ho fatto e che ha spaventato a morte mia sorella al suo rientro a casa alla vigilia dell'evento.
Quello che non avevo previsto, però, è che qualcosa di ben più odioso di un herpes stesse ticchettando nel mio corpo come una bomba ad orologeria. Un destino maligno infatti ha pensato mussolinianamente di "spezzarmi le reni" a poche settimane dalla tanto attesa laurea. Mentre ripetevo in automatico il mio discorsetto in italiano, inglese e spagnolo (sentendomi un capitano di crociera al cocktail di benvenuto), un misterioso doloretto ha cominciato a pulsare all'altezza della vita, come se qualcuno mi avesse spillato il fianco destro con una minuscola, invisibile graffettatrice. In breve tempo quella piccola fitta si è fatta via via più acuta, finché, gettati all'aria gli appunti, ho iniziato a galoppare furiosamente per casa emettendo il bramito del cervo trafitto da una freccia. Nonostante avesse la mia piena autorizzazione, mia madre si è rifiutata di uccidermi e porre fine alla mia sofferenza, e ha continuato a lavare i piatti, sfregandoli con più vigore per via della preoccupazione. Alla fine abbiamo chiamato l'ambulanza, ma anche dopo due flebo di antidolorifici continuavo a rovesciare gli occhi al cielo come un novello San Sebastiano. Dato che normalmente vivo in pigiama e giacca da camera, ero già pronto per il ricovero. Così mi hanno portato in ospedale, dove finalmente i medicinali hanno cominciato a fare effetto, al punto che ero abbastanza lucido da rimpiangere di non aver messo il pigiama blu anziché quello scozzese, che non era affatto abbinato alla giacca. Dopo due o tre diagnosi sbagliate, ho scoperto di avere un minuscolo granello di sabbia incastrato in quella clessidra naturale che è l'apparato urinario umano. Il dottore mi ha spiegato che non bevo abbastanza, che ho avuto una colica renale e che finché il calcolo non sarà espulso potrebbero seguirne altre, senza alcun preavviso. Magari - ho pensato con mio sommo orrore - anche il Giorno della Laurea.
Vi lascio immaginare quale profonda angoscia mi abbia procurato il pensiero di dover giocare una partita a flipper col mio corpo, con una biglia che sbatacchia da una parte all'altra tra i miei organi interni, quando invece avrei dovuto concentrarmi solo sulla tanto sospirata conclusione dei miei accademici affanni.
"E' un dolore terribile, lo so" mi ha confortato il medico, alla mia terza colica in due mesi, a una sola settimana dal giorno X. "Pensa che è paragonato a quello del parto..."
"Ah sì?"
"Almeno potrai dire di aver fatto anche questa esperienza!" ha aggiunto, con una risata. Non l'ho mandato al diavolo solo perché aveva una siringa di antidolorifico in mano. E comunque gli stavo già mostrando il mio sedere.
Non oso immaginare le conclusioni che avranno tratto i nostri vicini quando, all'alba del grande evento, mi hanno udito sbraitare dal bagno, mentre mi sistemavo la cravatta, "Ma', hai messo le siringhe nella borsa?", e lei ha urlato di rimando dal salotto, "Sì! L'ho messa nella busta con la tesi!"
"E l'ovatta e l'alcool?"
"Anche! Ho preso tutto!"
Kit pronto soccorso alla mano, ho raggiunto sano e salvo la facoltà (malgrado, come abbiamo scoperto durante il tragitto, la macchina del capo avesse un buco nella gomma.) Avevo fatto richiesta di un'ambulanza parcheggiata in zona ateneo, per sicurezza, nel caso che un'ennesima colica mi attanagliasse il fianco nel momento meno opportuno, ma non è stato possibile. Così mi sono assicurato di inserire nella lista degli invitati almeno due infermieri e un paramedico di mia conoscenza, pronti a trasportarmi in barella nello studio del mio relatore e rimettermi in sesto con un'iniezione di coraggio e Toradol...
♪ ♫ Toradol, To-ra-dol! Toradol, To-ra-dol! ♫  
Per fortuna, non c'è stato bisogno di interventi d'urgenza: i gemelli, René e Renée, si sono comportati più che bene. Tutto secondo i miei più rosei calcoli.


Tre giorni dopo torno sul luogo del delitto per dare un ultimo addio alla mia tanto vituperata facoltà. Prima di raggiungerla passo davanti alla copisteria universitaria e, attraverso la vetrina, oltre il bancone, Scazia mi rivolge quel suo sguardo scocciato a cui deve il suo nomignolo. In tre anni l'ho vista sorridere solo una volta, quando a darle una mano con le dispense c'era un tizio con i capelli lunghi alla Piero Pelù e un gilet di pelle nera che lasciava scoperti i lombi pallidi. Per poco non copulavano sulla fotocopiatrice. Sembrava uno di quei film americani in cui una giovane barista bionda, bella ma con neanche una briciola di autostima, si mette a flirtare col camionista di passaggio, nella speranza che possa essere un padre migliore per suo figlio di quanto non sia stato il suo ex, il motociclista manesco finito dentro per guida in stato d'ebbrezza.
Pochi passi e scendo la scalinata immersa nella penombra dell'ingresso di Lingue. Appena un triennio fa ero seduto solo soletto su una di quelle sedie da sala d'aspetto ed esorcizzavo la paura scarabocchiando sul mio taccuino caricature di compagni di corso di cui non conoscevo nemmeno il nome. Guardandomi intorno scopro che non è cambiato poi molto, solo che ora la facoltà di Lingue e Letterature Straniere è diventata il Dipartimento di Lettere Lingue Arti Italianistica e Culture Comparate (io ci avrei aggiunto anche qualcos'altro, già che c'erano: che so, Bricolage e Giardinaggio) e le sedie sono quasi tutte divelte (per sedersi bisogna fare il gioco della sedia. Più facile conquistare il Trono di Spade che trovare una superficie integra su cui poggiare le terga a lezione.) Gli altri studenti (ormai ex-colleghi, come li ridefinisco mentalmente, non senza un certo compiacimento) sono però ancora gli stessi volti senza nome. Questo posto rimane un corridoio di anime perdute, un luogo di amicizie occasionali che durano il tempo di un esame (salvo rare eccezioni.) Accanto mi sfreccia una ragazza sempre troppo truccata con cui non sono mai riuscito a prendermi abbastanza confidenza da suggerirle di smetterla di conciarsi come un quadro manierista. Da lontano, vicino al distributore del caffè, riconosco un altro volto familiare, una dal risolino facile con cui ho dato l'ultimo esame, quella lunga ma magica giornata di novembre. Era terrorizzata all'idea di essere "trombata" dalla professoressa (espressione colorita con cui credo intendesse dire "bocciata".) Provo a salutarla, ma guarda altrove. Quel giorno, quello dell'ultimo esame, c'era anche un piccolo James Franco e un altro ragazzo che mostrava una ben meno lusinghiera somiglianza con Alberto Stasi, senza contare la strana tipa bassina dalla pelle diafana, due sottili occhietti da Maneki Neko e un'ostentata ritrosia a parlare dei rapporti amorosi tra docenti, di cui però si vantava di essere ben informata. Poi c'era anche Toro Sedato, una ragazza con un anello al naso, che indossava un chiodo con sopra la sagoma borchiata di un teschio, aveva palpebre pesanti e una voce morbida e rassicurante. Mentre aspettavamo i comodi della professoressa (che sarebbe arrivata con ore di ritardo e i capelli sapientemente acconciati dal coiffeur), avevamo fatto gruppo, pranzato insieme e, rinunciando a un inutile tentativo di ripasso, ammazzato il tempo facendo l'elenco dei nostri hobby e dei segni zodiacali. Lolita - occhi verdi, i capelli e le labbra rosso carminio e la voce roca che risaliva bollente dalla gola come l'acqua dal fondo di una caffettiera - anche lei dei Gemelli, si è subito mostrata un'esperta astrologa. Chissà se alla fine è riuscita a conquistare, ancheggiando nei jeans a vita alta, il suo amato, pallido professore di portoghese, che ha una folta barba ottocentesca e un'aria malinconica: i nuovi Abelardo ed Eloisa, possibilmente senza castrazione e monacazione finale.
Malgrado l'attesa angosciante, serbo il ricordo di quella giornata come una delle più piacevoli trascorse tra quelle quattro mura. Ci siamo lasciati con la promessa di invitarci tutti alle rispettive lauree, cosa che nessuno ha poi fatto. E forse è stato meglio così.


Il cellulare e il bagliore di un celeste polveroso che proviene dalla finestra mi dicono che sono ancora le sei e mezza. So che non riuscirò a riaddormentarmi, così spiego il piumone come un'enorme ala bianca e lascio che i miei piedi nudi atterrino sulla moquette. Mi sento gli occhi doloranti e caldi, come se durante la notte qualcuno abbia usato le mie orbite per poggiarci due tazze di tè bollente. La doccia non lava via quella sgradevole sensazione e mi rivesto con più concentrazione di quanto l'attività richiederebbe di solito: prima i pantaloni rosso scuro, poi la camicia, e sopra il cardigan blu dai bordi rosso scuro. Troppo stanco per cercare il calzante, mi infilo a fatica un paio di Oxford blu e mi strozzo il collo del piede coi lacci rosso scuro. Come ultima cosa prima di lasciare la stanza, guardo il mio riflesso sullo specchio che mi appunta al petto la spilletta di Topolino,
I tavoli della colazione sono tutti vuoti, eccetto che per un trio di senegalesi. Uno è vestito con una lunga, stereotipica tunica a fantasia giraffa e ascolta da una radiolina una musica tutta percussioni. Accanto a lui, un ragazzo alto mi osserva mentre torno dal buffet col piatto pieno di toast al prosciutto. "Monsieur" attrae poco dopo la mia attenzione, avvicinandosi. Non parla italiano, ma capisco che vuole farmi i complimenti per il look. "Ah, grazie! Merci..." rispondo timidamente, facendomi quasi andare di traverso il caffè. Lo ritrovo poi davanti alla reception e, senza dirmi una parola, mi lascia sorridente il suo biglietto da visita, da cui leggo che si chiama Ahmeth e che è un cantante specializzato in cover di Michael Jackson tradotte in senegalese.
Rassicurato sull'abbigliamento, mi avventuro all'esterno e attraverso il Ponte Mosca, magicamente avvolto da una nebbiolina argentea. E' così che mi figuro le mie sinapsi arrugginite. La Scuola appare prima di quanto mi aspettassi: coi suoi mattoni rossi e l'orologio sembra una vecchia stazione, larga, ben assisa al capezzale della Dora. Davanti, la mongolfiera bianca mi ricorda quella che sorvola il mio paesello la notte del santo patrono. Nella borsa sbatacchiano dei grissini che hanno il sapore e la consistenza di taralli (o dei taralli a forma di grissino), uno snack che, sintetizzando la tradizione piemontese e quella pugliese, spero mi sia di buon auspicio. Nella stessa tasca ci sono anche le gocce di antidolorifico, nel caso un'altra freccia dovesse trapassarmi il fianco.
Passo oltre la Scuola, che malgrado il cancello aperto mi sembra inaccessibile, e ciondolo un po' per la strada incurvata, un ritaglio di provincia in quella grande città. Stamattina è ingombra di bancarelle di antiquariato. Nel giro di pochi minuti, mi travolgono almeno due cagnoni bianchi, due giganteschi licantropi albini, trascinandosi dietro i poveri padroni. Sbriciolo ancora qualche minuto inseguendo il Topolino ricamato sull'enorme zaino di un turista dall'aria teutonica, con la barba candida del nonno di Heidi. Sugli usci di bar e negozi di cimeli chiacchierano energicamente capannelli di anziani, tra cui uno con un impermeabile-mantello e una ragnatela di lana adagiata sulla pelata. Sembra Diagon Alley.
Con mezz'ora d'anticipo ritorno davanti alla Scuola, e mi metto a fissare col naso all'insù il drago di bronzo sopra l'arco dell'ingresso. Non è Hogwarts, ma l'ispirazione sembra quella.
Emetto un sospiro, il primo di una lunga serie, quel giorno, e mi decido ad entrare.
Una gentile Bianca Balti in versione intellettuale fa accomodare me e altre giovani facce portatrici di sorrisetti nervosi in una stanza foderata di legno chiaro. L'ambiente ricorda una sauna finlandese, e in effetti si suda, ma per la difficoltà dei test a cui siamo sottoposti, tra scrittura creativa, cinema, televisione, giornalismo, serie tv e comunicazioni web.
Sei, estenuanti ore dopo seguiamo Bianca nel tour dell'istituto, lungo corridoi tinti a colori vivaci in cui mi chiedo se potrò tornare. Gli studenti ci guardano con divertita curiosità, totalmente a loro agio, e mi chiedo se potrò sentirmi così anch'io. In biblioteca noto con entusiasmo infantile uno splendido samovar a fiori, e mi chiedo se potrò spillarci una tazza di tè.
"In bocca al lupo a tutti, allora" ci saluta la nostra guida. "Spero di ritrovarvi presto qui alla Holden!"
Contro ogni mia previsione, ci tornerò da studente.

Una serie di accademici accadimenti:
Episodio I - Stranieri e strani estranei
Episodio II - Grandi speranze
Episodio III - Legami chimici
Episodio IV - Studenti esasperati
Episodio V - In balìa della balia
Episodio VI - C'era una svolta
Episodio VII - Volver
Episodio VIII - Senza vergogna
Episodio IX - Chiamatemi (un) dottore

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