Prosegue il nostro itinerario lungo la costa meridionale dell'India, attraverso il Tamil Nadu fino a valicare i confini del verdeggiante e pepato Kerala. Giunti a Cochin si vola ahimè a casa, ma non prima di un breve scalo a Mumbai, per concludere degnamente il viaggio con un balletto in pieno stile bollywoodiano (sì, quello che si fa in attesa di trovare un gabinetto libero, considerando il cibo speziato.) Ecco qui di seguito i diari mancanti: potete leggere nell'ordine che preferite questi olii essenziali estratti direttamente dalla mia già annacquata memoria, sperando che possano avere su di voi effetti anche solo blandamente ayurvedici.
29 maggio, Madurai. Sulle mattonelle a spina di pesce del viale si riversa dai entrambi i lati l’ombra degli alberi di due parchi. Tra la folla regna una piacevole, vivace atmosfera domenicale. Si può già intravedere la sagoma torreggiante del gopuram del tempio. Ancora una volta un luogo sacro richiama alla mia mente le attrazioni di una fiera: quel baldacchino grondante di dei, mostri e animali dai colori fluorescenti sembrano caduti dal cielo, dopo essere sfuggiti dalle grinfie di una mano meccanica, e rimasti ammonticchiati lì come inafferrabili peluche.
In occasione della visita, indosso un ampio e svolazzante panjabi (o kurta: una camicia lunga fino alle ginocchia) bianco, su cui oscilla il mala (rosario indù) che ci hanno regalato a Chettinad. Per coprire le gambe, ho dovuto legarmi alla vita come un pareo (o meglio, un dhoti) la coperta che ho rubato dall'aereo. Dovrei testare il look indiano anche una volta rientrato, visti i risultati: una passante mi ha regalato una rosa. Poi trovo sia un abbigliamento estremamente comodo, e la cosa non mi stupisce: uno dei grandi meriti dell'India, se lo chiedete a me, è l'invenzione del pigiama.
All'interno del tempio, nei portici attorno alla vasca del Loto d’Oro, s'intrattengono pittoreschi gruppi di fedeli: non hanno nulla di ascetico, ma chiacchierano allegramente e mangiano a mani nude seduti su tovaglie da pic-nic a tinte vivaci.
Un bramino mi punteggia la fronte con della polvere bianca. Dopo dieci giorni di benedizioni del genere, ricevute in tutti gli altri tempi, apprendo con un sorrisetto tirato che si tratta di cenere di sterco di vacca. Cercando di non pensarci troppo, gironzolo a piedi nudi sul granito coperto di ghirigori e pentacoli floreali, mentre mi addentro per un labirinto di corridoi: alcuni sono rischiarati dalla luce, con il soffitto coperto da ritratti di divinità incasellate come su un gigantesco tabellone di Scale e Serpenti; altri sarebbero totalmente immersi nel buio se non fosse per i crisantemi dai mille petali, tinti di verde, rosa e giallo, che brillano sulle nostre teste come anemoni marine, e gli yali (nasuti mostri mitologici) che incombono dai capitelli, con gli occhi grandi e la pelle fluorescente delle creature degli abissi.
Come molti altri tempi visitati, anche questo è dedicato a Shiva (che nella Trimurti indù ha il ruolo di "distruttore", mentre Brahma e Vishnu sono rispettivamente "il creatore" e "il conservatore".) Spesso, come in questo caso, Shiva è accompagnato dalla sua popputa consorte, Parvati.
Sperando mi porti fortuna, lascio la rosa sotto un bassorilievo, scuro e unto di burro e spezie dai fedeli, che ritrae appunto i Brangelina del pantheon indù. Qui i due si fanno chiamare Sundareswarar, "il bel signore" e Meenakshi, "la dea dagli occhi di pesce" (si vede che in India è considerato un complimento.)
Donne a Kanchipuram: maldestri tentativi di imitare Steve McCurry.
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La loro divina luna di miele, di cui abbiamo seguito l'itinerario, è iniziata a Kanchipuram, una delle sette città sacre dell'induismo, dove i due si sono uniti in matrimonio, sotto un albero di mango che, secondo la tradizione, continua a rigenerarsi da millenni. Come succede a molte coppie, però, non sempre Shiva e Parvati condividono gli stessi interessi: lui, per esempio, se ne va da solo a ballare a Chidambaram, località dal nome piuttosto musicale che per gli indù è nientemeno che il centro dell'universo. Qui si estende l'immenso e incandescente cortile del tempio che fa da pista da ballo a Shiva nelle vesti di Nataraja, "signore della danza". Il titolo se l'è conquistato dopo aver umiliato la spaventosa dea Calì sollevando la gamba all'altezza della fronte con la disinvoltura di Heather Parisi.
Tempio di Shiva Nataraja a Chidambaram
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Ciò che più mi affascina delle divinità indù è il loro allegro bipolarismo. Shiva ne è un perfetto esempio, col suo essere al contempo virile e femmineo, yogi assorto e danzatore estatico, rigoroso asceta e seduttore dall'incontenibile potenza sessuale. Il dio che ha per simbolo una pietra dalla forma fallica (il lingam) è lo stesso che incenerisce col suo terzo occhio il dio dell'amore, Kama, colpevole di averlo infastidito durante la meditazione, per poi farlo rinascere, su richiesta di Parvati, dalle sue ceneri: c'è un tempo per la meditazione e uno per l'amore. In questo sistema religioso, mi sembra di capire, la rinuncia è solo momentanea, significa rimandare a un momento più opportuno, per godere pienamente ora dell'introversione, ora del piacere.
Come avrete capito, sono lì lì per convertirmi. Magari mi faccio anche bramino, visto che hanno la mise più comoda e discinta di tutti: non indossano praticamente niente, se non una sottile cordicella a tracolla sul petto e un dhoti, spesso coi lembi ripiegati all'interno (effetto "pannolino" di Mowgli, per intenderci.)
Il tempio di Shiva a Thanjavur
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30 maggio, Alappuzha (o Alleppey). Il tragitto in pullman previsto per questa mattina è piuttosto lungo, e la pazienza di Gandhi (l’autista, non il Mahatma) - che si mostra disposto a inchiodare in mezzo alla strada ogni cinque minuti per lasciare che mio zio fotografi un nibbio bramino, un martin pescatore o un’egretta - minaccia di rendere il viaggio infinito.
Tra uno scatto e l'altro, dopo aver evitato un paio di incidenti probabilmente mortali, ci lasciamo alle spalle le campagne del Tamil Nadu ed ora ci inerpichiamo sulle verdi alture del Kerala. Un gruppetto di donne, il sorriso messo in ombra dai cappelli a punta, salutano con la mano dalle piantagioni di tè. Più che campi coltivati sembrano ordinati labirinti vegetali, ma con le siepi ancora troppo basse perché ci si possa smarrire.
Facciamo un'azzardata sosta a metà di una tortuosa strada di collina. Il pepe nero si attorciglia sui tronchi degli alberi e, nascosta nell’ombra del sottobosco, scopriamo anche una sensitiva, una piantina che richiude timidamente i suoi denti di pettine non appena viene sfiorata (“Fa namastè con le mani” ridacchia Gandhi.) Sorbiamo un caffè lungo come il Mahabharata su una veranda sospesa sul rigoglio della foresta sottostante. Due pendii verdi si incastrano l’uno nell’altro davanti a noi, il primo così vicino da poter contare gli alberi sulla cresta, mentre sul secondo grava un velo di foschia argentea.
Raggiungiamo la laguna di Alleppey che è quasi mezzogiorno. La casa galleggiante ci aspetta ormeggiata, con il corno nero della prua che gli dà l’aria vagamente minacciosa di uno scarabeo rinoceronte. Un membro dell’equipaggio mi porge la mano mentre allungo una gamba cercando di non guardare l’acqua sotto di me e salto giù sul ponte. Qui, all’ombra del tetto di bambù, è stato messo insieme un piccolo salotto. Il cuoco, un tipo occhialuto dal sorriso untuoso e il dhoti blu scuro, ci serve dei cocchi da succhiare, mentre l’uomo che ci ha aiutato a salire va a prendere posto davanti alla ruota del timone.
Per un po' mi metto a curiosare per la barca, sentendomi irrequieto. Prima spalanco una porta-finestra che si apre direttamente sull’acqua verde. Osservo per un po' i riflessi serpeggianti del sole: sono attratto dall’idea di poter piombare in acqua con un solo passo. Poi però l’istinto di conservazione mi suggerisce che farei meglio a sprofondare, invece che in acqua, su uno dei divani, cosa che in effetti mi risolvo a fare. Tuttavia mi rialzo quasi subito – la pelle screpolata e appiccicosa lascia andare il mio sedere con una certa riluttanza -, passeggio avanti e indietro per il corridoio delle cabine e torno in salotto, dove contemplo per un po' una bruttissima immagine religiosa appesa sotto un'orologio a muro: è un ologramma che mostra il volto della Vergine o di Cristo a seconda di dove si trova l’orripilato osservatore, e io faccio in modo di soffermarmi nel punto in cui le due figure si sovrappongono nel ritratto di una donna barbuta.
Intanto un sussulto della barca ha annunciato la partenza e ora scivoliamo lentamente per la laguna, che ha l’aspetto di un fiume largo e placido. La vista dalla prua, su cui batte forte il sole, è ostruita dalle schiene dei miei compagni di viaggio, curvi oltre le ringhiere e con gli occhi che sono ormai un tutt’uno con gli obbiettivi fotografici. Così mi metto a guardare il panorama saltando da una porta-finestra a all’altra, le mie postazioni preferite perché vagamente pericolose: su entrambi i lati fili di palme si specchiano sulla superficie smerigliata dell’acqua. Su un riva un bambino sguazza allegramente col papà, vicino al bordo di pietra della riva, mentre dalla sponda opposta un ragazzino vuole mostrarmi quant’è bravo a tuffarsi. Diverse case galleggianti simili alle nostre ci fiancheggiano o ci vengono incontro, brulicanti di passeggeri e fiorite dei loro complici saluti con la mano.
Dopo rigirato nel piatto quello che il cuoco di bordo ha volenterosamente definito "pranzo" (una coppa di riso scotto, condito con irriconoscibili verdure piccanti e nugoli di mosche), scendiamo sulla terraferma per una passeggiata lungo la strada sterrata che fiancheggia il canale. Palme di varia specie ed altezza ombreggiano il cammino, dove, per un bel tratto, incontriamo solo villette, strette le une alle altre, e tutte di colori sgargianti, spesso combinati in coppia - l’arancio monaco-buddista e il viola settimo-chakra, il turchese fondo-di-piscina e il verde uvaspina. Proseguendo le abitazioni si fanno via via più umili, se non proprio pericolanti. All’ingresso di una di queste un bambino seminudo e impolverato striscia le gambe e il ventre sulla terra rossa reggendosi sulle braccia, nella posizione del serpente, e ci guarda con un’espressione accigliata. Superiamo una coppia di galline fulve che ci sculettano davanti e da una sgocciolante cortina di capelli neri ci appare il sorriso di una ragazza, che se ne sta china, dopo lo shampoo, a metà di una piccola gradinata terminante nell’acqua. Pochi passi in avanti, e seguo con lo sguardo una barca che procede adagio, in bilico sul filo del bucato che una donna ha teso tra due manghi e caricato di magliette colorate, a mo’ di festone.
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Al di là del tunnel, in un praticello al lato del sentiero, una capretta bianca è stata legata ad un arbusto. Mi fermo un attimo con l'intenzione di accarezzare il suo muso, ma la vista delle pupille rettangolari mi dà improvvisamente i brividi, e così mi limito a sfiorarla appena sulla testa, col braccio testo tanto quanto la cordicella crudelmente corta che la tiene prigioniera. Poco più in là ce n'è un'altra, nera, anch'essa legata ma ad una palma, e con almeno la consolazione di una splendida vista sulla laguna. Di tanto in tanto si scambia un belato con la bianca, tentando inutilmente di avvicinarsi.
Il pomeriggio, una volta tornati sulla casa galleggiante, scivola poi pigramente come la nostra crociera, con lo sciabordio ipnotico dell’acqua e le fusa del motore come sottofondo, mentre alterno un morso di banana fritta a un sorso di legnoso tè in bustina. Sospiro sulla mia tazza fumante e appoggio negligentemente un braccio alla ringhiera del ponte, e così resto per un po’ a guardare pensieroso il giacinto d’acqua, che lambisce lo scafo col suo manto di foglie e rabbrividisce di continuo alla corrente, mentre il cielo si sforza di imitarne l’esatta tonalità di lilla dei fiori. Dalla barca vicina si sente la musica, il chiacchiericcio e gli schiamazzi di una famiglia piuttosto numerosa riunita davanti a un televisore, su cui lampeggiano ballerini in abiti cremisi e oro.
Col calare della sera e dei veli delle zanzariere, il salottino del ponte si trasforma in un’afosa sala lettura, iniettata dal bagliore azzurrino delle lampade fulmina-insetti, finché pian piano non ci ritiriamo tutti nelle nostre cabine.
Sotto le coperte mi metto ad ascoltare i versi di uccelli sconosciuti. Grida, squittii alati, mantra fragorosi, pernacchie da giocattoli di gomma, giri di raganelle (gli strumenti). Alcuni sembrano gemiti imploranti, a cui rispondono risatine ritrose. Su tutti, però, domina uno stridio collettivo, continuo e disperato, della cui origine penso sia meglio non indagare: come di ratti intrappolati nelle viscere di un sacco, che si scavalcano e si camminano addosso.
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31 maggio, Kochi (o Cochin). Il teatro, una piccola sala di legno scuro, è pervaso da un piacevole brusio multilingue mentre gli attori, tutti maschi e a petto nudo, finiscono di truccarsi a vicenda. Uno di loro è seduto in un angolo del palcoscenico e attacca una raggiera di vibrisse di carta bianca al suo collega, che se ne sta sdraiato, il volto già tinto di verde pisello. Un altro, che dovrebbe interpretare la parte della donna, siede un po’ in disparte controllando da uno specchio di legno le fasi del trucco che trasformeranno gradualmente il suo faccione in una grande e gialla luna piena.
Forse brandisco con un po' troppa forza il ventaglio di paglia a forma di ‘p’ che ho trovato sulla mia poltroncina, perché finisco per colpire in piena faccia al meno un paio di volte i miei vicini.
Dobbiamo rileggere più volte il libretto dello spettacolo che ci hanno consegnato all’ingresso per tenere bene a mente chi ucciderà chi: per questa sera è prevista la rappresentazione di un episodio particolarmente violento del Mahabharatha. Inganno l’attesa cercando di origliare il vivace e ininterrotto flusso di chiacchiere di un gruppetto di ragazzi spagnoli seduti davanti a noi.
Dopo un quarto d’ora, quando il bramino ha coperto con simboli sacri di farina di riso il corridoio davanti alla platea e adornato di garofani gialli una piccola statua di Shiva danzante che veglia sul palcoscenico, lo spettacolo può cominciare. Per primo appare Faccia-di-Luna-Piena per una dimostrazione della variegata gestualità della danza Kathakali, in cui ogni azione, espressione del viso e gesto delle mani rispecchia un preciso stato d’animo. Difficile non ridere davanti alla buffa mimica facciale dell’attore, che per di più è ingabbiato in un gonfio costume femminile e coperto di gioielli. Gli occhi enormi e sgranati, il fremere di sonaglio delle labbra, il vibrare delle sopracciglia come corde di sitar e i movimenti a scatto della testa: sembra una bambola a grandezza naturale che sia stata posseduta dallo spirito di un serpente.
Con l’inizio della rappresentazione vera e propria, compaiono sul palco anche gli altri protagonisti. Ognuno di loro si muove convulsamente al ritmo assordante dei tamburi, nonostante si trascinino addosso cascate di stoffe che hanno tutta l’aria di essere pesantissime e reggano in bilico sulla testa torreggianti copricapi e aureole variopinte. I costumi, rossi e bianchi, sono talmente simili che il buono, il cattivo e l’aiutante magico sono a malapena distinguibili l’uno dall’altro. Ma immagino sia il perfido Dussasana quello che sta graffiando coi suoi voluttuosi artigli metallici le vesti della povera Panchali (Faccia-di-Luna), ignorando che l’abito della donna è stato incantato in modo che sia impossibile strapparlo via.
Prima che lo spettacolo diventi noioso, ecco che parte il furioso duello tra il principe e il cattivone, alquanto ridicoli nelle loro ingombranti gonne a campana, mentre si picchiano con bastoni rossi simili a maracas e lanciano grida belluine. Infine mi godo l'effetto catartico della deliziosa vista del principe che squarcia il petto del suo nemico, ne estrae le budella e lascia che la moglie si lavi i capelli nel suo sangue.
All'uscita dal teatro ci sorprende l'applauso ruggente del monsone. Dopo un lungo inseguimento, ci ha finalmente raggiunto e ci costringe ad una corsa nel buio verso il pullman. L'acqua talmente fitta e battente che, non so come, riesce ad entrarmi nel naso.
Con questa immagine di purificazione voglio concludere il mio resoconto di questo viaggio, che, più di qualsiasi altro, mi è sembrato essere durato una vita. Una vacanza, infondo, non è una breve vita condensata altrove? Una fulminea reincarnazione di te stesso in un altro luogo?