lunedì 13 luglio 2015

Diari d'India (seconda parte)


Prosegue il nostro itinerario lungo la costa meridionale dell'India, attraverso il Tamil Nadu fino a valicare i confini del verdeggiante e pepato Kerala. Giunti a Cochin si vola ahimè a casa, ma non prima di un breve scalo a Mumbai, per concludere degnamente il viaggio con un balletto in pieno stile bollywoodiano (sì, quello che si fa in attesa di trovare un gabinetto libero, considerando il cibo speziato.) Ecco qui di seguito i diari mancanti: potete leggere nell'ordine che preferite questi olii essenziali estratti direttamente dalla mia già annacquata memoria, sperando che possano avere su di voi effetti anche solo blandamente ayurvedici.  

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29 maggio, Madurai. Sulle mattonelle a spina di pesce del viale si riversa dai entrambi i lati l’ombra degli alberi di due parchi. Tra la folla regna una piacevole, vivace atmosfera domenicale. Si può già intravedere la sagoma torreggiante del gopuram del tempio. Ancora una volta un luogo sacro richiama alla mia mente le attrazioni di una fiera: quel baldacchino grondante di dei, mostri e animali dai colori fluorescenti sembrano caduti dal cielo, dopo essere sfuggiti dalle grinfie di una mano meccanica, e rimasti ammonticchiati lì come inafferrabili peluche.
In occasione della visita, indosso un ampio e svolazzante panjabi (o kurta: una camicia lunga fino alle ginocchia) bianco, su cui oscilla il mala (rosario indù) che ci hanno regalato a Chettinad. Per coprire le gambe, ho dovuto legarmi alla vita come un pareo (o meglio, un dhoti) la coperta che ho rubato dall'aereo. Dovrei testare il look indiano anche una volta rientrato, visti i risultati: una passante mi ha regalato una rosa. Poi trovo sia un abbigliamento estremamente comodo, e la cosa non mi stupisce: uno dei grandi meriti dell'India, se lo chiedete a me, è l'invenzione del pigiama.
All'interno del tempio, nei portici attorno alla vasca del Loto d’Oro, s'intrattengono pittoreschi gruppi di fedeli: non hanno nulla di ascetico, ma chiacchierano allegramente e mangiano a mani nude seduti su tovaglie da pic-nic a tinte vivaci.

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Un bramino mi punteggia la fronte con della polvere bianca. Dopo dieci giorni di benedizioni del genere, ricevute in tutti gli altri tempi, apprendo con un sorrisetto tirato che si tratta di cenere di sterco di vacca. Cercando di non pensarci troppo, gironzolo a piedi nudi sul granito coperto di ghirigori e pentacoli floreali, mentre mi addentro per un labirinto di corridoi: alcuni sono rischiarati dalla luce, con il soffitto coperto da ritratti di divinità incasellate come su un gigantesco tabellone di Scale e Serpenti; altri sarebbero totalmente immersi nel buio se non fosse per i crisantemi dai mille petali, tinti di verde, rosa e giallo, che brillano sulle nostre teste come anemoni marine, e gli yali (nasuti mostri mitologici) che incombono dai capitelli, con gli occhi grandi e la pelle fluorescente delle creature degli abissi.
Come molti altri tempi visitati, anche questo è dedicato a Shiva (che nella Trimurti indù ha il ruolo di "distruttore", mentre Brahma e Vishnu sono rispettivamente "il creatore" e "il conservatore".) Spesso, come in questo caso, Shiva è accompagnato dalla sua popputa consorte, Parvati.
Sperando mi porti fortuna, lascio la rosa sotto un bassorilievo, scuro e unto di burro e spezie dai fedeli, che ritrae appunto i Brangelina del pantheon indù. Qui i due si fanno chiamare Sundareswarar, "il bel signore" e Meenakshi, "la dea dagli occhi di pesce" (si vede che in India è considerato un complimento.)


Donne a Kanchipuram: maldestri tentativi di imitare Steve McCurry. 
La loro divina luna di miele, di cui abbiamo seguito l'itinerario, è iniziata a Kanchipuram, una delle sette città sacre dell'induismo, dove i due si sono uniti in matrimonio, sotto un albero di mango che, secondo la tradizione, continua a rigenerarsi da millenni. Come succede a molte coppie, però, non sempre Shiva e Parvati condividono gli stessi interessi: lui, per esempio, se ne va da solo a ballare a Chidambaram, località dal nome piuttosto musicale che per gli indù è nientemeno che il centro dell'universo. Qui si estende l'immenso e incandescente cortile del tempio che fa da pista da ballo a Shiva nelle vesti di Nataraja, "signore della danza". Il titolo se l'è conquistato dopo aver umiliato la spaventosa dea Calì sollevando la gamba all'altezza della fronte con la disinvoltura di Heather Parisi.

Tempio di Shiva Nataraja a Chidambaram
Ciò che più mi affascina delle divinità indù è il loro allegro bipolarismo. Shiva ne è un perfetto esempio, col suo essere al contempo virile e femmineo, yogi assorto e danzatore estatico, rigoroso asceta e seduttore dall'incontenibile potenza sessuale. Il dio che ha per simbolo una pietra dalla forma fallica (il lingam) è lo stesso che incenerisce col suo terzo occhio il dio dell'amore, Kama, colpevole di averlo infastidito durante la meditazione, per poi farlo rinascere, su richiesta di Parvati, dalle sue ceneri: c'è un tempo per la meditazione e uno per l'amore. In questo sistema religioso, mi sembra di capire, la rinuncia è solo momentanea, significa rimandare a un momento più opportuno, per godere pienamente ora dell'introversione, ora del piacere.
Come avrete capito, sono lì lì per convertirmi. Magari mi faccio anche bramino, visto che hanno la mise più comoda e discinta di tutti: non indossano praticamente niente, se non una sottile cordicella a tracolla sul petto e un dhoti, spesso coi lembi ripiegati all'interno (effetto "pannolino" di Mowgli, per intenderci.)



Il tempio di Shiva a Thanjavur 
30 maggio, Alappuzha (o Alleppey). Il tragitto in pullman previsto per questa mattina è  piuttosto lungo, e la pazienza di Gandhi (l’autista, non il Mahatma) - che si mostra disposto a inchiodare in mezzo alla strada ogni cinque minuti per lasciare che mio zio fotografi un nibbio bramino, un martin pescatore o un’egretta - minaccia di rendere il viaggio infinito. 
Tra uno scatto e l'altro, dopo aver evitato un paio di incidenti probabilmente mortali, ci lasciamo alle spalle le campagne del Tamil Nadu ed ora ci inerpichiamo sulle verdi alture del Kerala. Un gruppetto di donne, il sorriso messo in ombra dai cappelli a punta, salutano con la mano dalle piantagioni di tè. Più che campi coltivati sembrano ordinati labirinti vegetali, ma con le siepi ancora troppo basse perché ci si possa smarrire.
Facciamo un'azzardata sosta a metà di una tortuosa strada di collina. Il pepe nero si attorciglia sui tronchi degli alberi e, nascosta nell’ombra del sottobosco, scopriamo anche una sensitiva, una piantina che richiude timidamente i suoi denti di pettine non appena viene sfiorata (“Fa namastè con le mani” ridacchia Gandhi.) Sorbiamo un caffè lungo come il Mahabharata su una veranda sospesa sul rigoglio della foresta sottostante. Due pendii verdi si incastrano l’uno nell’altro davanti a noi, il primo così vicino da poter contare gli alberi sulla cresta, mentre sul secondo grava un velo di foschia argentea.

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Raggiungiamo la laguna di Alleppey che è quasi mezzogiorno. La casa galleggiante ci aspetta ormeggiata, con il corno nero della prua che gli dà l’aria vagamente minacciosa di uno scarabeo rinoceronte. Un membro dell’equipaggio mi porge la mano mentre allungo una gamba cercando di non guardare l’acqua sotto di me e salto giù sul ponte. Qui, all’ombra del tetto di bambù, è stato messo insieme un piccolo salotto. Il cuoco, un tipo occhialuto dal sorriso untuoso e il dhoti blu scuro, ci serve dei cocchi da succhiare, mentre l’uomo che ci ha aiutato a salire va a prendere posto davanti alla ruota del timone.
Per un po' mi metto a curiosare per la barca, sentendomi irrequieto. Prima spalanco una porta-finestra che si apre  direttamente sull’acqua verde. Osservo per un po' i riflessi serpeggianti del sole: sono attratto dall’idea di poter piombare in acqua con un solo passo. Poi però l’istinto di conservazione mi suggerisce che farei meglio a sprofondare, invece che in acqua, su uno dei divani, cosa che in effetti mi risolvo a fare. Tuttavia mi rialzo quasi subito – la pelle screpolata e appiccicosa lascia andare il mio sedere con una certa riluttanza -, passeggio avanti e indietro per il corridoio delle cabine e torno in salotto, dove contemplo per un po' una bruttissima immagine religiosa appesa sotto un'orologio a muro: è un ologramma che mostra il volto della Vergine o di Cristo a seconda di dove si trova l’orripilato osservatore, e io faccio in modo di soffermarmi nel punto in cui le due figure si sovrappongono nel ritratto di una donna barbuta.
Intanto un sussulto della barca ha annunciato la partenza e ora scivoliamo lentamente per la laguna, che ha l’aspetto di un fiume largo e placido. La vista dalla prua, su cui batte forte il sole, è ostruita dalle schiene dei miei compagni di viaggio, curvi oltre le ringhiere e con gli occhi che sono ormai un tutt’uno con gli obbiettivi fotografici. Così mi metto a guardare il panorama saltando da una porta-finestra a all’altra, le mie postazioni preferite perché vagamente pericolose: su entrambi i lati fili di palme si specchiano sulla superficie smerigliata dell’acqua. Su un riva un bambino sguazza allegramente col papà, vicino al bordo di pietra della riva, mentre dalla sponda opposta un ragazzino vuole mostrarmi quant’è bravo a tuffarsi. Diverse case galleggianti simili alle nostre ci fiancheggiano o ci vengono incontro, brulicanti di passeggeri e fiorite dei loro complici saluti con la mano.
Dopo rigirato nel piatto quello che il cuoco di bordo ha volenterosamente definito "pranzo" (una coppa di riso scotto, condito con irriconoscibili verdure piccanti e nugoli di mosche), scendiamo sulla terraferma per una passeggiata lungo la strada sterrata che fiancheggia il canale. Palme di varia specie ed altezza ombreggiano il cammino, dove, per un bel tratto, incontriamo solo villette, strette le une alle altre, e tutte di colori sgargianti, spesso combinati in coppia - l’arancio monaco-buddista e il viola settimo-chakra, il turchese fondo-di-piscina e il verde uvaspina. Proseguendo le abitazioni si fanno via via più umili, se non proprio pericolanti. All’ingresso di una di queste un bambino seminudo e impolverato striscia le gambe e il ventre sulla terra rossa reggendosi sulle braccia, nella posizione del serpente, e ci guarda con un’espressione accigliata. Superiamo una coppia di galline fulve che ci sculettano davanti e da una sgocciolante cortina di capelli neri ci appare il sorriso di una ragazza, che se ne sta china, dopo lo shampoo, a metà di una piccola gradinata terminante nell’acqua. Pochi passi in avanti, e seguo con lo sguardo una barca che procede adagio, in bilico sul filo del bucato che una donna ha teso tra due manghi e caricato di magliette colorate, a mo’ di festone.



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La strada intanto comincia a restringersi, finché non si riduce a una galleria, formata da un lato da una lunga parete punteggiata dal magenta dell’ibisco e dall’altro da una fila di manghi, i tronchi obliqui sull’acqua. In fondo a quell’angusto passaggio intravediamo un gruppetto di donne ridacchianti che ci vengono in contro e dobbiamo sostare qualche minuto per lasciarle passare.
Al di là del tunnel, in un praticello al lato del sentiero, una capretta bianca è stata legata ad un arbusto. Mi fermo un attimo con l'intenzione di accarezzare il suo muso, ma la vista delle pupille rettangolari mi dà improvvisamente i brividi, e così mi limito a sfiorarla appena sulla testa, col braccio testo tanto quanto la cordicella crudelmente corta che la tiene prigioniera. Poco più in là ce n'è un'altra, nera, anch'essa legata ma ad una palma, e con almeno la consolazione di una splendida vista sulla laguna. Di tanto in tanto si scambia un belato con la bianca, tentando inutilmente di avvicinarsi.
Il pomeriggio, una volta tornati sulla casa galleggiante, scivola poi pigramente come la nostra crociera, con lo sciabordio ipnotico dell’acqua e le fusa del motore come sottofondo, mentre alterno un morso di banana fritta a un sorso di legnoso tè in bustina. Sospiro sulla mia tazza fumante e appoggio negligentemente un braccio alla ringhiera del ponte, e così resto per un po’ a guardare pensieroso il giacinto d’acqua, che lambisce lo scafo col suo manto di foglie e rabbrividisce di continuo alla corrente, mentre il cielo si sforza di imitarne l’esatta tonalità di lilla dei fiori. Dalla barca vicina si sente la musica, il chiacchiericcio e gli schiamazzi di una famiglia piuttosto numerosa riunita davanti a un televisore, su cui lampeggiano ballerini in abiti cremisi e oro.
Col calare della sera e dei veli delle zanzariere, il salottino del ponte si trasforma in un’afosa sala lettura, iniettata dal bagliore azzurrino delle lampade fulmina-insetti, finché pian piano non ci ritiriamo tutti nelle nostre cabine. 
Sotto le coperte mi metto ad ascoltare i versi di uccelli sconosciuti. Grida, squittii alati, mantra fragorosi, pernacchie da giocattoli di gomma, giri di raganelle (gli strumenti). Alcuni sembrano gemiti imploranti, a cui rispondono risatine ritrose. Su tutti, però, domina uno stridio collettivo, continuo e disperato, della cui origine penso sia meglio non indagare: come di ratti intrappolati nelle viscere di un sacco, che si scavalcano e si camminano addosso.

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31 maggio, Kochi (o Cochin). Il teatro, una piccola sala di legno scuro, è pervaso da un piacevole brusio multilingue mentre gli attori, tutti maschi e a petto nudo, finiscono di truccarsi a vicenda. Uno di loro è seduto in un angolo del palcoscenico e attacca una raggiera di vibrisse di carta bianca al suo collega, che se ne sta sdraiato, il volto già tinto di verde pisello. Un altro, che dovrebbe interpretare la parte della donna, siede un po’ in disparte controllando da uno specchio di legno le fasi del trucco che trasformeranno gradualmente il suo faccione in una grande e gialla luna piena.
Forse brandisco con un po' troppa forza il ventaglio di paglia a forma di ‘p’ che ho trovato sulla mia poltroncina, perché finisco per colpire in piena faccia al meno un paio di volte i miei vicini.
Dobbiamo rileggere più volte il libretto dello spettacolo che ci hanno consegnato all’ingresso per tenere bene a mente chi ucciderà chi: per questa sera è prevista la rappresentazione di un episodio particolarmente violento del Mahabharatha. Inganno l’attesa cercando di origliare il vivace e ininterrotto flusso di chiacchiere di un gruppetto di ragazzi spagnoli seduti davanti a noi.
Dopo un quarto d’ora, quando il bramino ha coperto con simboli sacri di farina di riso il corridoio davanti alla platea e adornato di garofani gialli una piccola statua di Shiva danzante che veglia sul palcoscenico, lo spettacolo può cominciare. Per primo appare Faccia-di-Luna-Piena per una dimostrazione della variegata gestualità della danza Kathakali, in cui ogni azione, espressione del viso e gesto delle mani rispecchia un preciso stato d’animo. Difficile non ridere davanti alla buffa mimica facciale dell’attore, che per di più è ingabbiato in un gonfio costume femminile e coperto di gioielli. Gli occhi enormi e sgranati, il fremere di sonaglio delle labbra, il vibrare delle sopracciglia come corde di sitar e i movimenti a scatto della testa: sembra una bambola a grandezza naturale che sia stata posseduta dallo spirito di un serpente.
Con l’inizio della rappresentazione vera e propria, compaiono sul palco anche gli altri protagonisti. Ognuno di loro si muove convulsamente al ritmo assordante dei tamburi, nonostante si trascinino addosso cascate di stoffe che hanno tutta l’aria di essere pesantissime e reggano in bilico sulla testa torreggianti copricapi e aureole variopinte. I costumi, rossi e bianchi, sono talmente simili che il buono, il cattivo e l’aiutante magico sono a malapena distinguibili l’uno dall’altro. Ma immagino sia il perfido Dussasana quello che sta graffiando coi suoi voluttuosi artigli metallici le vesti della povera Panchali (Faccia-di-Luna), ignorando che l’abito della donna è stato incantato in modo che sia impossibile strapparlo via.
Prima che lo spettacolo diventi noioso, ecco che parte il furioso duello tra il principe e il cattivone, alquanto ridicoli nelle loro ingombranti gonne a campana, mentre si picchiano con bastoni rossi simili a maracas e lanciano grida belluine. Infine mi godo l'effetto catartico della deliziosa vista del principe che squarcia il petto del suo nemico, ne estrae le budella e lascia che la moglie si lavi i capelli nel suo sangue.
All'uscita dal teatro ci sorprende l'applauso ruggente del monsone. Dopo un lungo inseguimento, ci ha finalmente raggiunto e ci costringe ad una corsa nel buio verso il pullman. L'acqua talmente fitta e battente che, non so come, riesce ad entrarmi nel naso.
Con questa immagine di purificazione voglio concludere il mio resoconto di questo viaggio, che, più di qualsiasi altro, mi è sembrato essere durato una vita. Una vacanza, infondo, non è una breve vita condensata altrove? Una fulminea reincarnazione di te stesso in un altro luogo?

lunedì 6 luglio 2015

Diari d'India (prima parte)

Ritorno dall'India sentendomi spiritualmente rigenerato e in pace col mondo come Julia Roberts e Alanis Morissette. Mi sembra finalmente di essermi ricongiunto con il mio io interiore (non chiedetemi delle interiora, però.)
Poiché dare un'idea delle sensazioni che si possono provare in un viaggio in India è un po' come cercare di separare i granelli di ciascuna delle centinaia di spezie che compongono una ciotola di curry, ho pensato di proporvi un florilegio degli episodi per me più significativi, delle esperienze multi-sensoriali più intense e delle scene più pittoresche, trascrivendovi alcune pagine del mio personalissimo, segretissimo diario (su cui mio zio, il Cosmopolita, che mi ha portato con sé in questo viaggio, ha inutilmente tentato di mettere le grinfie.) 

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23 maggio, Chennai (o Madras). Il mio primo scorcio d’India è un’immagine di pacata festosità. La spiaggia di Madras, con pretese di deserto, si ostina a lungo a nascondere il mare, così che si è costretti a camminare per un bel po' in un interminabile, dorato spazio metafisico, finché il lento passaggio di un bambino e di un cavallo scheletrico, che guida per le redini, srotola davanti ai nostri occhi la vista del bagnasciuga e dell’acqua grigia. Qui, come fiori in ammollo, si rinfresca una moltitudine di donne in sari: una palpitante barriera di rosso corallo, giallo, arancio, verde e viola. Emaciati ragazzini in costume prendono di petto le onde grigie; ragazze vestite di tutto punto siedono sulla la sabbia bagnata o saltellano ridendo nell’acqua bassa, che si arriccia attorno ai loro piedi bruni come cavigliere tintinnanti; qualche bambino più timoroso si mantiene sul bagnasciuga aggrappandosi alle gonne grondanti di madri, zie e sorelle (ognuna porta tra i capelli trecce di gelsomini, che una volta avvizziti ricadono in tristi e ingialliti chicchi di riso). Nessuno osa spingersi più in là, nella piattezza del mare, preferendo la pulsante e continua benedizione della risacca.
Sulle gobbe della sabbia ancora asciutta un’affollatissima platea si gode quello spettacolo vitale: variopinti e mormoranti ginecei, e accanto fieri gruppi di uomini a braccia conserte, con i loro bianchi dothi (i pareo maschili). In questa zona di confine tra l’arido e l’umido, tra l’immobile contemplazione degli asciutti e il dinamismo dei bagnanti, passiamo noi, inseguendo o incrociando uomini e bambini a cavallo, e venditori con boa rosa shocking di zucchero filato sigillato sulla schiena. La gente sorride ed è ben felice di essere fotografata. La nostra curiosità, d'altronde, è da loro pienamente ricambiata: frotte di ragazzini, sorridendo e oscillando il capo, chiedono di essere fotografati con noi, attratti dal nostro aspetto "esotico."


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25 maggio, Mahabalipuram (o Mamallapuram). Sotto al sole cocente una famiglia d’elefanti, uomini e ogni genere di bestie, accorrono a festeggiare la Discesa del Gange, tutti scolpiti nel granito. L’aria è talmente irrespirabile che davanti a questo bassorilievo mi ritrovo a sperare in un miracolo simile. Un ambulante cerca di farmi comprare un Kamasutra tascabile, forse indovinandomi carente nel campo. Mi sento stordito, tra gli assilli nel creolo pan-turistico dei venditori e lo strombazzare delle motociclette, che schizzano per strada a branchi. Evito per un soffio di essere travolto da una ragazza, che cavalca uno scooter ruggente con il cipiglio della dea guerriera Durga, e un clacson, vicinissimo, mi fa spiccare un salto di spavento. Schiaccio quello che mi era sembrato un sasso nero, ma che subito si rivela una massa morbida e sospetta. Infatti quando trascino via il piede stendo sul ciglio della strada una pennellata verde brillante: fortunatissima, sacra cacca di vacca.
La giornata è stata dedicata ai templi fossili. Spuntano tutti dalle sabbie ardenti, con pagode e pilastri che sembrano doversi polverizzare e seppellirti da un momento all’altro, e bassorilievi in cui gli dei esibiscono una combattività che mi sembra impossibile, anche per un dio, possedere con quest'afa: tipo sollevare una montagna per usarla come ombrello o sbracciarsi (letteralmente) per difendere l'umanità da armate demoniache. La desolazione archeologica attorno alla Grotta della Tigre è appena inverdita da qualche fila di palme di Palmira, con corvi e coppiette all’ombra come unici visitatori.
All’uscita dal sito ci sono due bambini, di non più di dieci anni, a torso nudo e armati, che ci aspettano guardandoci dall’alto di una montagnola di teschi bruciati. A ben guardare sono solo cocchi vuoti e la sciabola che ho visto in mano ad uno di loro è il coltellaccio ricurvo con cui li affettano. Non appena ci avviciniamo ci porgono un frutto aperto, già meta di moscerini, e fanno rotolare giù dalla bocca qualche parola tamil che sembra essere stata già raccolta e rimessa in bocca molte altre volte. La guida ci spiega che vendono nungu, il frutto delle Palmira. Un attimo dopo, dietro sue istruzioni, uno dei bambini taglia via lo scalpo a sette frutti con sette colpi secchi, e li distribuisce, senza nemmeno un sorriso. Gli occhi sembrano essere maturati troppo in fretta, esposti al sole e alla noia.
Il nungu assomiglia a una melanzana compressa, dalla pelle dura e bruno-nerastra, che sfuma nel bianco vicino al picciolo. Una volta aperto rivela un'albedo con tre buchi chiusi ermeticamente da una luccicante membrana gialla. Bisogna affondare il pollice in ognuno di questi orifizi ed affrettarsi a succhiare il fiotto di succo caldo che ne sgorga. L’operazione richiede delicatezza e un’affezione minima alla propria dignità. Con ancora in bocca il sapore dell'uvaspina, amaro come il rimpianto, levo l'indice e spingo in uno dei buchi, forse con troppa energia perché ne scaturisce uno spruzzo altissimo. Cercando di non badare al succhia-succhia generale, mi riparo all'ombra dei fiori gialli di un golden rain tree (ebbene sì, l'albero della pioggia dorata) per assaporare con un po' di privacy il gusto del frutto: ottimo, dolce, come latte e litchi. In pochi sbrodolanti secondi l'ho già prosciugato e lo faccio dondolare, con le dita infilate in ciascun buco, pronto a lanciarlo come una palla da bowling.

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26 maggio, Puducherry (o Pondicherry). Pondicherry mi sembra fiorita e dolce come il suo nome mentre passeggiamo per i viali perpendicolari del quartiere francese. Maestosi alberi si piegano ad ogni angolo per vigilare sul flusso dei motorini e dei tre ruote gialli. Seguo con lo sguardo una donna in sari giallo, seduta in fondo al dorso ricurvo di una bicicletta viola, che supera ronzando il grigio chiaro dei bassi edifici coloniali e si lascia alle spalle una serie di porte celesti. Poi passa sotto un gigantesco flamboyant, coronato di fiammelle rosse e arancio, che l’ha aspettata chino all’incrocio per sventagliarle i capelli con le foglie bipenni, sottilissime, come disegnate con minuscoli tratti d’inchiostro verde. 
Poco dopo la vista di questo dinamico interagire di colori, visitiamo un famoso ashram (un centro di meditazione dove acquisto un libricino sulla reincarnazione) e poi una chiesa coloniale tinta di rosa, la cui unica attrattiva è un corvo irrispettosamente appollaiato a un lampadario. Dall’esterno, mentre aspetto gli altri, posso ancora sentire i suoi aspri versi satanici che rimbombano per le navate celesti. Intanto mi sollevo sulle punte per strappare furtivo un fiore dal frangipani che cresce nel sagrato e mi rigiro tra le mani quella morbida girandola, sui cui petali sono impressi i colori dell’alba: un giallo solare che si diluisce nel rosa chiaro. Emana il profumo più buono che riesca a ricordare.
Tornando al pulmino assistiamo alla buffa scena di una suora che tenta con ogni mezzo, gesticolando e inveendo, di cacciare una vacca dall’ingresso laterale di un convento. L’animale, comodamente stravaccato al centro di un cerchio di spazzatura, la guarda per qualche istante con occhi interrogativi, ma non gli passa neanche per la mente di rinunciare ai privilegi che gli sono stati tributati dalla religione dominante. D’altronde, in una terra dalla spiritualità così affascinante, scegliere il cristianesimo mi sembra davvero un peccato.  


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Lascio il frangipani sul mio sedile, così che tra una tappa e l’altra possa tornare a inebriarmene come un tossico. So che difficilmente troverei odori così piacevoli, fuori. Infatti sotto i tendoni colorati del mercato, nello strombazzante quartiere tamil, l’odore umido delle collane di fiori, delle montagnole di rose e delle coccarde arancio dei garofani d’India si confondono con l'afrore delle spezie e il puzzo dell’acqua putrida e del pesce essiccato. Lì una donna taglia di netto le scabre rotondità chartreuse di una giaca (jackfruit) e ci fa assaggiare uno spicchio, giallo e dal sapore vanigliato, appena corrotto dal ricordo agliaceo dei semi. 
Nel giardino botanico, due ragazze avvolte in sari rosso sangue passeggiano nella luce ambrata del tardo pomeriggio, mentre batuffoli bianchi fioccano a neve dagli alberi di cotone. Il titolo di albero più spettacolare, però, va al sacro baniano, sotto cui Buddha trovò l'illuminazione: qui a Pondicherry ce n'è uno che sembra determinato ad ostruire completamente il cielo. Spande per metri e metri le sue innumerevoli braccia frondute, sostenute nel loro avanzare da altissime radici aeree: delle colonne nodose e spesse come zampe d’elefante.
A proposito di elefanti, al calare del buio ci fermiamo al tempio di Ganesh, il pachidermico dio della fortuna e del superamento degli ostacoli. Paradossalmente, ha per servitore e cavalcatura un topo: l'elefante con la sua mole riesce ad abbattere gli ostacoli, mentre il topo è così piccolo da riuscire facilmente ad aggirarli. Per alcuni, però, il fatto che un elefante cavalchi un topo è un simbolo del dominio della spiritualità sulle meschinità terrene. 
Varcato l'arco d'ingresso del tempio abbandono i miei sensi all’aggressione del caos, della musica e dei colori fluorescenti di pareti, statue, fedeli e fiori. Siamo in piena funzione religiosa, ma c'è tutta la festosità di una fiera estiva, con bancarelle straripanti di gelsomini e fusi di loto rosa al posto dei carretti del pop-corn e dello zucchero filato.
Nella confusione, mi trovo a specchiarmi nell’enorme occhio spalancato di un’elefantessa e sobbalzo, arretrando. Da una targhetta appesa al collo scopro che l’hanno chiamata Lakshmi, come la dea della ricchezza e della prosperità. E' ammaestrata per benedire con la proboscide la testa di quanti fanno un’offerta al tempio. Ignorando la mia ritrosia, mio zio, il Cosmopolita, mi ficca in mano una moneta e mi spinge verso l’animale. La folla si ritrae e mi trovo fronte a fronte con l’elefantessa. La sua è decorata con ghirigori di cenere bianca. Le orecchie flaccide hanno gli orli sdruciti, rosa e a pois grigi. Lascio la mia donazione sull’interno muscoloso del naso, che l’elefantessa ha prontamente avvicinato, e chino la testa, chiedendomi se sia il caso di offrire la mia nuca a un bestione che potrebbe spezzarmi in un attimo l’osso del collo. Mentre attendo la mia benedizione, fisso lo sguardo sulle civettuole, gigantesche cavigliere che le hanno messo, e che inizialmente avevo scambiato per catene. Poi arriva il colpo - non proprio un leggero bussare - di quel pneumatico srotolato, e mi rialzo, ridendo di sollievo.


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28 maggio, Chettinad. “Hai visto dove ti ho portato, nipote?” domanda retorico lo zio Cosmopolita, mentre ammiriamo impressionati dal finestrino la sontuosa villa dove dormiremo questa notteSul candore di base dell’edificio, strisce di blu cobalto fasciano i capitelli delle alte finestre e ne risalgono gli archi, mentre le coppie di lesene agli angoli si sono tirate addosso eleganti tuniche di vernice color terracotta. Questi due colori, blu e terracotta, tornano poi a riempire le lunette, animare i fregi floreali che guarniscono le balconate (ciascuna con un’urna ad ogni angolo) e si inseguono avvolgendo guglie e torrette.
All’interno un’esile ragazza in sari color crema e top porpora ci dà il benvenuto mettendoci al collo dei rosari di perline profumate. Sarebbe bella se non fosse per l’espressione arcigna che il naso all’insù conferisce al suo viso. Allo stesso modo l’ingresso unisce bellezza e cupezza, col suo soffitto di legno scuro a cassettoni e le colonne di marmo nero. I candelabri in vetro di Murano sono spenti, se non per il loro naturale latteo candore da celenterati, perciò l’ambiente è illuminato solo da un cortiletto interno, che si intravvede da una porta centrale, con scene mitologiche minuziosamente intagliate sulle ante, e da finestre interne con persiane verticali. Il pavimento a scacchi è coperto in alcuni punti da tappeti con composizioni floreali rococò, su cui i cuscini alla francese sembrano essere strisciati come bachi da seta. Ci sono tavolini, ognuno con il suo vaso ricolmo di frangipani galleggianti, lucide panche, un orologio a pendolo nero decorato a chinoiserie d’oro, e un banchetto da contabile che funge da reception, a memoria della tradizione bancaria della regione.
Tre gradini ci conducono nella loggia che circonda il cortile, sorretta da colonne di teak birmano, panciute ma con caviglie sottili, su cui fioriscono scuri capitelli intagliati. Dalle tenebre color mogano in cui ci troviamo, una luce angelica, per contrasto, sembra inondare il cortile, sul cui limitare sono state sistemate specularmente, a funerea imitazione di due sedie sdraio sul bordo di una piscina, una coppia di chaise longue di marmo grigio.
Intanto un ragazzo sulla trentina con una camicia arancione, è apparso con sette bicchieri di tè ghiacciato. E' pesantemente zuccherato e profumato di cannella, ma muoio di sete e lo finisco tutto in due sorsi. Una volta rinfrescati la ragazza ci invita a seguirla per un giro della villa, mentre i nostri bagagli vengono portati nelle camere da un trio di forzute donne di mezza età, i ventri cascanti lasciati scoperti dai sari porpora, per le quali a dire il vero mi sento un po’ in colpa.
La nostra guida ci indica i ritratti dei primi proprietari, una famiglia di ricchi commercianti birmani fuggiti dal loro paese d’origine per le continue catastrofi naturali, e ci precede lungo ampli e ombrosi saloni, dove salutiamo i nostri volti sudati in innumerevoli specchi belgi, alziamo più volte la testa verso i soffitti di legno di cui la penombra lascia comunque intuire i colori arlecchineschi delle decorazioni e la chiniamo con la stessa frequenza per percorrere anche con lo sguardo i motivi geometrici e i fiori stilizzati delle mattonelle della vicina Athangudi.
Poi ci arrampichiamo su per un angusta scala a chiocciola e raggiungiamo un piano sgombro e disabitato. Ogni volta la nostra accompagnatrice deve schiudere interminabili persiane, facendo luccicare di pulviscolo il vuoto di queste sale. Ha insistito perché visitassimo subito la villa, prima che faccia buio, visto che quassù non c'è elettricità. Anche così, però, alla luce argillosa del tramonto, mentre seguo in un silenzio esausto i passi veloci di questa burbera figurina, sento addosso il brivido del mistero e mi godo l'atmosfera del posto, che è insieme esotica e gotica... 
Passeggiamo per la terrazza, ai piedi della montagna di tegole rosse del tetto, e ci infiliamo a turno in una stretta torretta circolare da cui si può vedere il villaggio e le risaie tutt’intorno. Riesco a scorgere persino un pavone, che fugge per le campagne facendo ondeggiare la coda-mantello, e una scimmia dal pelo dorato mi guarda da un albero vicino. 
Prima di cena ci intratteniamo sul divano a barca di uno dei tanti salotti. Il tavolino basso davanti a noi è quasi interamente occupato da un tabellone da gioco diviso in caselle colorate, ognuna contrassegnata da un animale, un oggetto o una divinità, sui quali si estendono trasversalmente… “Scale e serpenti” ci spiega il ragazzo con la camicia arancione, che sembra materializzarsi ovunque siamo. “Si tira il dado e si procede da una casella all’altra. Le scale ti portano su, i serpenti ti fanno tornare giù.” Anche lui, come la ragazza che ci ha accolto, è dotato di una tenebrosa bellezza e una cortesia un po’ ruvida, come arrugginita dalla lunga attesa di ospiti. Diversamente da tanti altri indiani incontrati, nessuno dei due sembra abituato a sorridere.
Cominciamo a giocare, sotto la vigilanza del ragazzo, e nel giro di pochi tiri della barretta di metallo che fa da dado, mentre il mio più saggio compagno di stanza ha già risalito i virtuosi pioli di una scala, la mia conchiglia-pedina è finita per tre volte di seguito nelle spire del primo serpente, scivolando al punto di partenza. Sarebbe un gioco divertente, se non fosse tutto così fastidiosamente allegorico.
La cena viene servita sotto al soffitto a tronco di piramide di una sala dall’illuminazione sepolcrale. Non sembra ci siano altri ospiti e occupiamo il tavolo centrale, apparecchiato con una patriottica tovaglia bianca, verde e arancio. Siamo circondati, oltre che da colonne di marmo di Carrara, anche da un cerchio di camerieri pronti ad anticipare ogni nostro bisogno. Una presenza ectoplasmatica, la loro, che può risultare un po' ansiogena. Il nostro mantra "Not spicy, please" è rimasto inascoltato, come in ogni ristorante, benché in ognuno il cameriere di turno alle ordinazioni ci abbia sempre sorriso dondolando la testa e giurando che i condimenti sarebbero stati a dir poco ospedalieri. Questo di far oscillare la testa da destra a sinistra, come pupazzi bobblehead, è un gesto che, a seconda del sorriso cui è abbinato, può assumere i significati più svariati, da "sì, certo" a "non saprei", da "forse, vediamo" a "no, mi dispiace."
Prima di andare a letto, facciamo una passeggiata per il villaggio. Il ragazzo in camicia arancione ci manda alle calcagna un baffuto poliziotto affinché ci scorti per le strade sterrate, deserte e completamente buie. Esperienza, questo giretto con la guardia al seguito, che fa molto Edward Morgan Forster. Anche al lume della torcia, comunque, non c’è molto da vedere, e ce ne torniamo indietro, delusi, dopo aver incontrato solo un capannello di mucche, che sono rimaste parcheggiate sotto la luna, costringendoci a insinuarci tra loro, mentre lancio occhiate apprensive alle punte dei loro manubri d’osso.   
Mi soffermo un po' sul ballatoio che si affaccia sulla piscina, prima di andare a letto. Mi appoggio alla balaustra ad archi moreschi e guardo un po' il cielo. E' perfettamente diviso a metà. In una galleggiano tante nuvolette, evanescenti e palpitanti, separate tra loro solo da sottili crepe di blu (mai visto nulla di simile: sembra che la via lattea stia cagliando.) L’altra metà invece è blu e inscalfibile come uno zaffiro. In questo momento, tutto, intorno a me - lo scorcio di stradina che si intravede oltre il gazebo e il muro; la silhouette magrittiana dell’albero di mango contro il cielo stellato da presepe; la elle del ballatoio, col suo tetto squamato d’argilla – tutto mi sembra parte di uno scenario smontabile, finto come sembra finta la vita in vacanza.

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Continua...

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