lunedì 15 settembre 2014

Sulle orme del gigante

"...Come away, oh human child!/ To the waters and the wild/ With a fairy, hand in hand./
For the world's more full of weeping/ Than you can understand." (The Stolen Child, W.B.Yeats)
"...Vieni via, o bambino umano!/ Verso le acque e le lande selvagge / Mano nella mano con una fata. / Perché al mondo ci sono molte più lacrime / Di quanto tu possa mai comprendere." (Il bambino rapito, W.B. Yeats)
Dopo aver ammirato l'umile bellezza di Dublino, il richiamo delle "acque" e delle "lande selvagge" è diventato troppo forte per essere ignorato.
Prima mi conduce nel vicino porto di Howth, paesino di pescatori  flagellato dal vento salmastro, dove le lucide testoline color piombo delle foche affiorano di tanto in tanto dall'acqua e scivolano via in un attimo verso il faro.
Poi mi persuade ad avventurarmi sulle ventose Wicklow Mountains, con le loro gelide brughiere assediate dalla bruma. Là dove osano solo le pecore, e domina ovunque il viola dell'erica e il giallo dell'erba di S.Giacomo. Da lì mi addentro per i pendii boscosi della valle di Glendalough, tra querce, betulle e noccioli secolari, drappeggiati di scialli di muschio, e cespugli di more e mirtilli selvatici avvolti da una nebbiolina argentata. Suggestionabile come sono, il gorgogliare dei ruscelli e il fruscio delle foglie mi spingono più di una volta a girarmi di scatto, credendo di trovare gli occhietti di un folletto o di una fata a spiarmi tra i rovi. La nostra guida, d'altronde, una donna di mezza età di nome Tallula, prima di scendere dal pullman mi ha messo addosso una certa ansia: "Il percorso è accidentato e lungo, perciò fate attenzione a non perdervi. Venite con me, state con me, tornate con me. Finché resteremo insieme non vi accadrà nulla di male. Non staccatevi dal gruppo. Venite con me, state con me, tornate con me. Se doveste smarrirvi saremmo costretti a lasciarvi qui. Sono certa che non vorrete trascorrere la notte da soli nella più completa oscurità. Perciò, venite con me, state con me, tornate con me." La donna, in realtà, parla con un forte accento del Sud di Dublino, il che la porta a sostituire ogni "t" col suono "sh", perciò sarebbe più corretto riportare in questo modo il suo ansiogeno mantra: "Venishe con me, stashe con me, shornashe con me." Forse teme davvero che chi dovesse rimanere in coda al gruppo possa essere fatalmente attratto dalle voci insidiose della foresta.
Oltre le acque grigie dei laghi, svetta quella che sembrerebbe la torre di Raperonzolo, ma in realtà è il campanile rotondo del monastero di San Kevin, dove i fuchsia oscillano come campanelle tra le lapidi sbilenche e coperte di licheni. Una ragazza dell'Est-Europa, con una dentatura cavallina, abbraccia appassionatamente una croce celtica. Tallula ci assicura che non lo fa per dar sfogo alla sua ardente devozione: secondo la tradizione, se si riesce a toccarsi le punte delle dita abbracciando una croce ci si sposerà entro l'anno. Infatti un bel ragazzo alto e biondo la guarda con un'espressione infinitamente dolce. Non mi capitava di vedere una scena ambientata in un camposanto che fosse così romantica dai tempi de La famiglia Addams.


Il cimitero e la Round Tower del monastero di San Kevin a Glendalough.
 
Le brughiere del Sally Gap, nelle Wicklow Mountains. Sì, so che non si vede
nulla, ma non è affascinante proprio per questo? Sembra che da quella nebbia possa
emergere di tutto... una banshee o magari un pùca! La prima è uno spirito
femminile che, se appare ad un irlandese, preannuncia col suo grido agghiacciante
l'imminente morte di un familiare. Ognuna di loro serve un solo clan (quelli
più nobili, con i cognomi che iniziano per "Mac" o "O'"), mentre un coro di
banshee presagisce la morte di un personaggio importante, come un re o un santo.
A differenza degli allegri  e servizievoli Lepricauni di verde vestiti, i pùca sono
folletti spaventosi e mutevoli, tanto per l'aspetto che per l'attitudine: possono
apparire nelle sembianze di un caprone o di un cavallo nero, e, per quanto alle volte
 possano rivelarsi benigni, sono per lo più dispettosi, se non proprio malvagi.
In genere si mostrano agli umani nel mese di novembre, divertendosi a terrorizzare
i viandanti.

Il rientro a Dublino è solo una breve sosta prima della levataccia per la prossima, remota destinazione: il Selciato del Gigante (Giant's Causeway), nell'Ulster. Colui che ci guiderà in questa seconda avventura, un uomo che chiameremo convenzionalmente Seamus (dato che non ho capito il nome), parla una lingua che inizialmente ho riconosciuto come gaelico. In realtà è semplicemente inglese, ma non mi riesce di capire alcunché di quello che dice, forse per l'incomprensibile accento nord-irlandese, o magari per via di quella sua voce bassa e sexy - neanche stesse sussurrando sconcezze all'orecchio della fidanzata - che fa di lui un possibile, promettente acquisto per l'industria della cinematografia erotica ma un pessimo cicerone.
Lo spettacolo che scorre al di là del finestrino, però, parla da solo. Da un lato del finestrino, la verdeggiante Causeway Coast si getta sul mare argenteo, tra le cui onde, vicino alla riva ciottolosa, mi sembra di distinguere un volto umano: una visione, durata nemmeno un secondo, che l'angolo medioevale della mia mente registra subito, ovviamente, come l'avvistamento di una sirena.
Dall' altro lato, invece, si inseguono colline e prati verde brillante, dove sgambettano frotte di pecorelle fresche di tosatura. E innumerevoli agnellini. Dolcissimi agnellini ovunque: belli come appena usciti dalle illustrazioni naif di un libro di catechismo.

Le sirene delle isole britanniche. Le selkie, originarie dei mari scozzesi, ma presenti anche nelle 
leggende irlandesi, islandesi e faroesi, finché restano in acqua hanno l'aspetto di comuni foche,
ma possono liberarsi della pelle e approdare a riva nelle sembianze di bellissime fanciulle. Se un
uomo riesce a rubargliela, però, la selkie sarà costretta a vivere sulla terra e sposarlo.
La sirena, tuttavia, continuerà a guardare con nostalgia l'oceano e, qualora un giorno dovesse ritrovare
la sua pelle di foca, vi farà immediatamente ritorno, abbandonando senza alcuno scrupolo marito
e figli. Similmente, se si ruba il cappello rosso di una sirena irlandese, detta merrow, potrà vivere
sulla terra e camminare su due gambe umane. Le merrow, però, data la proverbiale bruttezza
dei maschi merrow, sono decisamente più inclini delle loro cugine selkie a flirtare con gli
avvenenti pescatori, sebbene le loro avventure abbiano spesso esiti tragici, come racconta
W.B. Yeats: “A mermaid found a swimming lad,/Picked him up for her own,/Pressed her
body to his body,/Laughed; and plunging down/Forgot in cruel happiness/That even lovers drown.”
(Una sirena trovò un ragazzo che nuotava,/Lo prese con sé,/Strinse il suo corpo al suo corpo,/
Rise, e tuffandosi giù negli abissi,/Presa da crudele felicità, dimenticò/Che anche gli amanti
possono annegare.")
Mentre la pioggerellina cede il posto al sole, anche la parlata di Seamus sembra rischiararsi, per quanto solo a sprazzi. Ci indica al microfono un'altura che scompare subito dopo dietro una curva: si dice che se un albero cresce solitario al centro di un campo è perché abitato dalle fate, dunque non va abbattuto per nessun motivo, sempre che non si voglia subire la loro terribile vendetta.
Poco più in là si delinea il profilo di Cavehill, la collina dal volto umano che ispirò a Jonathan Swift le peripezie di Gulliver, prima imprigionato dai Lillipuziani, poi sballottolato dai giganti di Brobdingnag, quindi issato sull'isola fluttuante di Laputa e infine approdato sull'isola degli Houyhnhnms, cavalli parlanti dotati di straordinaria intelligenza e saggezza, al contrario dei selvaggi e incolti Yahoo, che di umano hanno solo l'aspetto. Ho sempre trovato estremamente inquietante il finale dei satirici viaggi di Gulliver: tornato a casa, può finalmente riabbracciare moglie e figli, ma scopre di non riuscire più a sopportare il loro odore, che gli ricorda terribilmente quello degli yahoo, tanto da scegliere di dormire nella stalla.
Intanto, mentre proseguiamo verso nord, rifletto sulla curiosa toponomastica irlandese, che, attingendo più volentieri al gaelico che all'inglese, suona sempre alquanto esotica. Nel corso del viaggio mi sono appuntato i nomi più simpatici. Per il momento, i miei preferiti sono Lisnagunogue, Drumcondra, Carrigaline e Annamoe. Potrebbero benissimo essere terre fantastiche come quelle visitate da Gulliver, magari confinanti con Brobdingnag.
A proposito di nomi strani e mirabolanti avventure, la prima sosta è il Carrick-a-rede, il vertiginoso ponte di corda sospeso sul mare. Una volta portato a termine il traballante attraversamento, la pelliccia erbosa dell'isolotto, pettinata dal vento, è così morbida che sembra di camminare sul dorso di un enorme essere vivente: viene quasi da fargli un grattino.



La vista dal Carrick-a-rede.
 Poco dopo si arriva finalmente alla tappa che attendevo con più trepidazione: il Selciato del Gigante, bizzarra architettura naturale composta da colonne di basalto dalla forma perfettamente geometrica, per lo più esagonale. Questo luogo così singolare è associato a Finn McCool (o meglio, Fionn mac Cumhall), leggendario guerriero e veggente, che, come molti personaggi della mitologia celtica, ha subito nel corso della storia un curioso ridimensionamento: con l'avvento del Cristianesimo, gli antichi dèi pagani si sono rimpiccioliti nell'immaginario collettivo fino a trasformarsi in fate e folletti, mentre gli eroi hanno acquisito proporzioni gigantesche. Così sarebbe stato Finn McCool, forte della sua imponente stazza, a costruire il Selciato del Gigante per raggiungere a piedi la Scozia e affrontare il suo altrettanto gigantesco rivale, Benandonner. Visto da vicino, però, il gigante scozzese risultò molto più grande di quanto Finn avesse previsto, così, dietro suggerimento di sua moglie, si travestì da infante. Una volta raggiunta la costa irlandese, di fronte alle proporzioni del "bambino", Benandonner non ebbe alcuna voglia di incontrarne il padre e se ne tornò in fretta in Scozia.
Malgrado questo inganno, a Finn non mancò l'esperienza della paternità: suo figlio Oisin (o Ossian), guerriero e poeta, è il protagonista di una struggente leggenda che mi è stata raccontata con grande pathos dalla saltellante cantastorie del Museo dei Lepricani di Dublino. Partorito quando sua madre, vittima dell'incantesimo di uno stregone malvagio, era ancora una cerva, Oisin ("cerbiatto") si unì alla Fianna, gruppo di valorosi guerrieri capeggiato da suo padre Finn. Una notte, mentre il ragazzo si allenava nel bosco, incontrò una bellissima dama a cavallo, la fata Niamh dai Capelli d'Oro, che, innamoratasi di lui, lo portò con sé nel regno di cui era principessa, Tir na n-Og ("La Terra della Giovinezza"), i cui abitanti non conoscono né la vecchiaia né la morte. I due amanti vissero insieme felici, ma dopo tre anni Oisin cominciò a sentire la mancanza di suo padre e chiese a Niamh di potergli fare visita, anche solo per poco tempo. La fata, sebbene preoccupata, accettò di prestargli il suo cavallo, Embarr, capace di galoppare a gran velocità senza toccare terra, ma lo avvertì di non smontare mai dal destriero, o un'orribile sciagura sarebbe caduta su di lui. Oisin, dopo averle assicurato che sarebbe stato attento e che avrebbe fatto presto ritorno a Tir na n-Og, salì in groppa al cavallo fatato e tornò in un lampo nel luogo esatto da cui era partito, che però gli apparve molto cambiato. Raggiunto un villaggio, chiese di suo padre Finn e dei guerrieri della Fianna, ma nessuno seppe dirgli nulla. Solo un vecchio ricordava di aver sentito parlare di Finn McCool da suo padre, che a sua volta aveva udito delle sue eroiche imprese da suo nonno. Oisin apprese così che per ogni anno trascorso a Tir na n-Og, in Irlanda ne erano passati cento, e dunque tutti i suoi cari erano morti ormai da tempo. Terribilmente afflitto, si volse indietro, ma durante il tragitto si fermò ad aiutare un uomo che, per quanto si sforzasse, non riusciva a issare una pietra su un carro. Questo atto di altruismo, però, gli costò caro: mentre cercava di sollevare il masso le redini si spezzarono e Oisin cadde da cavallo. Nel momento stesso in cui il suo corpo toccò terra, tutti i trecento anni trascorsi piombarono su di lui, facendone un vecchio ormai in fin di vita. Riuscì a sopravvivere appena in tempo per essere battezzato da San Patrizio, poi esalò l'ultimo respiro. Niamh, non vedendolo arrivare, si mise alla sua ricerca, ma quando lo trovò era ormai troppo tardi.

Le rocce "a nido dape" del Selciato del Gigante.


Smarrito nelle mie fantasie, mentre saltello malfermo sulle rocce del Selciato, perdo anch'io la cognizione del tempo e ritorno al pullman con sensibile ritardo. Il risultato è un'incomprensibile lavata di capo da Seamus. Gli irlandesi, così come gli inglesi d'altronde, hanno un modo davvero grazioso di perdere le staffe. Non si sognano nemmeno di urlare: la voce si riduce a un falsetto, mentre il viso raggiunge una tonalità color pulce. Poi, in genere, riprendono il sorriso in breve tempo, con la facilità con cui il sole si affaccia tra gli intervalli di pioggia.
Sulle note acute di questa ramanzina si conclude la mia visita dell'Isola di Smeraldo. Sperando in cuor mio che i sette giorni trascorsi in Irlanda equivalgano a settecento anni in Italia e che quindi la mia facoltà sia ormai ridotta ad un cumulo di rovine, mi abbandono sullo schienale, cercando a fatica di ignorare la famiglia allargata che occupa metà dell'aereo. E dico "allargata" non solo per il numero - a mio giudizio, eccessivo - dei suoi membri, ma anche per la loro tendenza ad allargarsi troppo in termini di buona educazione. "Che caldo che fa qua! Ma perché non accendono l'aria condizionata? Che aspettiamo a partire? Chiedi a quella! Quant'è brutta! Mai hai visto che brutta l'hostess?! Sembra quella là... quella della famiglia Addams... Mortimer? Ah, sì, Morticia! Ma tu l'hai visto quel video? Quel video dell'aereo? Quello in cui non si apre bene il carrello e il pilota fa un atterraggio assurdo? Che ha detto? Ah, è tutto a posto? Cos'è che ha detto? Io non sento nessun odore strano! Ah, dice che è normale? C'era un problema al condizionatore allora... ecco perché non partiamo! E' tutto okay quindi? Sicuri? Signorina, partiamo? Sì, stiamo decollando, non lo senti il motore? Madonna, guarda che spettacolo le nuvole! Cos'è che dice quello all'altoparlante? Oh, ma qua stiamo andando in Italia, parlate italiano!! Se atterra bene però glielo faccio l'applauso. Magari lo facessero a me un applauso, quando finisco di lavorare...!" e così via. Un interminabile flusso di coscienza joyciano per tutte la durata del volo.
Nel frattempo, per quanto l'hostess identica ad Anjelica Houston mi abbia rassicurato, l'odore strano che pervade la cabina continua ad inquietarmi. Non riesco a definire di cosa si tratti, ma è alquanto sgradevole. Mi rifugio in bagno e lo scarico verde smeraldo, vorticando come una pozione nel calderone, emana un aerosol di disinfettante. Quando torno al mio posto, però, l'odore c'è ancora. Dietro di me sento ancora risatine infantili e gente che si sporge sul corridoio per chiamare le assistenti di volo con grida sguaiate: "HOSTESS!!!"
Adesso capisco cos'è questo odore: è puzza di yahoo.

venerdì 5 settembre 2014

Gente di (passaggio a) Dublino


"Non c'è tradizione da cui trarre più motivo d'onore e che meriti di essere conservata con più gelosia dell'ospitalità" irlandese, proclama nel suo vanesio discorso il protagonista de I morti, l'ultimo racconto di Gente di Dublino. La vista di due ragazzi che vengono immobilizzati e portati via in manette dalla polizia proprio difronte al mio albergo in Temple Bar, però, non è esattamente il caloroso benvenuto che mi sarei aspettato. Sulle prime questo vivace e pittoresco quartiere mi è sembrato essere non poi tanto più rassicurante di quello che era un tempo Temple Bar: un ritrovo di frequentatori di postriboli e altri personaggi poco raccomandabili. Ma mi convinco ben presto che è solo per via dell'ora tarda. L'atmosfera, dopotutto, per quanto sopra le righe, è festosa: le menti più brillanti (e brille) del Trinity College e giovani turisti in cerca di divertimento si scatenano indistintamente ora al ritmo pop che pompa dai locali alla moda, ora a quello di gaie gighe irlandesi dei bei tempi andati, suonate con brio in qualche pub tradizionale, di quelli con il nome a caratteri dorati sul legno dipinto e gli ingressi rigurgitanti di fiori. A risuonare, però, è soprattutto l'arpa, quella impressa sulle lattine di Guinness. Nel bel mezzo della strada, tra un tizio che fa pipì all'angolo del negozio di attrezzatura da pesca di Rory e la vetrina ingannevolmente illuminata della bottega delle caramelle di zia Nellie, una coppia pomicia indisturbata. In realtà non sarebbe corretto dire che pomicino: più che altro poggiano il peso del corpo sulle labbra dell'altro e restano così, immobili, a sbarrarmi la strada. La ragazza, a giudicare dalla lunghezza esigua della gonna, sembra totalmente insensibile al freddo, mentre lui poggia la mano, forse per riscaldarla, sul maglioncino di lei, giusto in corrispondenza di un seno. In effetti lo tiene ben saldo in mano, lo impugna come il pomello di una porta, come a dire "tranquilla che te lo reggo io." Non so per quanto tempo intendano rimanere lì, paralizzati, muovendo solo ritmicamente le labbra, come quei pesci pulitori con la bocca premuta a ventosa sul vetro degli acquari. Basterebbe anche solo considerare questo modo statuario di amoreggiare per dare ragione a James Joyce, che definisce Dublino come "il centro della paralisi."
Io che mi sento sempre diviso tra desiderio di fuga e incapacità di agire, mi chiedo se Dublino sia davvero e/o sia ancora la trappola senza via di uscita che il suo più celebre cittadino descriveva nei primi racconti. Alcune norme del prestigioso Trinity College farebbero quasi pensare di sì: c'è un edificio-dormitorio che non può in alcun modo essere modificato né godere delle più moderne tecnologie quali una caldaia decente, per questo non è raro sorprendere studenti e professori uscire all'aperto in accappatoio per raggiungere le docce.
Altro perfetto esempio di immobilità sono il gatto e il topo rimasti incastrati due secoli fa in una canna dell'organo di Christ Church. Le mummie di questi Tom e Jerry ottocenteschi sono ancora oggi in bella mostra, giusto davanti alla caffetteria della cripta, come se bere un tè e addentare un muffin al doppio cioccolato nel buio di una cripta non faccia già abbastanza allegria.
 
Dettaglio dell'imponente Long Room, nella Old Library del Trinity College,
che conserva preziosi miniati irlandesi come il decoratissimo Libro di Kells.
Completano la santa trinità delle biblioteche dublinesi la piccola ma antica
Marsh Library e la National Library, dall'enorme volta color acquamarina
e i candidi putti, in cui è ambientato un episodio dell'Ulisse di Joyce. Meritano
anche le meraviglie orientali della Chester Beatty Library, nel complesso
del Castello di Dublino. 
Eppure, di pomeriggio, passeggiando per i negozi di Grafton Street, Dublino mi appare piena di vita e tutt'altro che deprimente. I cantanti di strada non sono eccessivamente lagnosi e non vedo nessuna ragazza trasandata che si trascini  dietro un'aspirapolvere rotta per tutto il centro come in Once. Ma nello spensierato viavai di passanti, c'è qualcuno che resta indietro. Proprio all'inizio di Grafton, un adolescente schiaccia un pisolino rannicchiato per terra, all'ombra di un lampione grondante di gerani rosa e petunie viola. Viola come la giacchetta a vento in cui si stringe. Mi sento quasi in colpa per questa osservazione puramente estetica. Ma forse, più dell'abbinamento di colori, ciò che mi colpisce è che a casa abbia lasciato una giacca praticamente identica. Forse portiamo anche la stessa taglia.
Ha ancora lo zaino sulle spalle, gonfio come la casa-carapace di una tartaruga. Credo proprio che stia dormendo, il viso rosso di acne contratto in un'espressione imbronciata e i capelli biondi appena mossi dall'aria pungente. Alle sue spalle si addensa una coperta grigia di nuvole sugli alberi di St. Stephen's Green. Pochi centimetri più in là, due bucce di banana leopardate sono allineate l'una accanto all'altra con cura superflua.
Intanto un ragazzo sulla trentina, alto, coi capelli scuri e il ciuffo leggermente appuntito si guarda intorno con aria preoccupata. Lo vedo lanciare brevi ma ripetute occhiate apprensive al giovane addormentato. Gli gironzola intorno, esitante, le mani infilate nelle tasche della giacca di pelle, finché non si decide a picchiettargli su una spalla. Il ragazzino apre gli occhi verde chiaro, gli dice qualcosa, forse un'imprecazione, o magari mugugna "Ancora cinque minuti..." Molto più probabilmente lo invita solo a farsi gli affaracci suoi. Poi richiude gli occhi. Il volto è duro, quasi superbo nella sua malinconia: "Sì, sto dormendo sotto un lampione, e allora?"  Non avrà più di vent'anni.
Un po' turbato dalla scena, proseguo per la mia strada, finché la vescica gonfia non mi offre un pretesto per tornare indietro in direzione del centro commerciale. Quei due sono ancora lì. Il ragazzino continua a sonnecchiare sotto il lampione fiorito. L'altro non si è allontanato, sembra cercare ancora con lo sguardo qualcuno che lo aiuti a far ragionare quello sbarbatello lì, steso sulla strada, in pieno pomeriggio, mentre una folla di curiosi si accalca attorno a uno spettacolo di break dance. Poi gli dà un altro colpetto sulla spalla. Le sue sono solo preoccupazioni da buon samaritano, oppure quei due si conoscono?
La mia capacità vescicale a questo punto non può assecondare ulteriori speculazioni, e corro su per i tre piani del centro commerciale: fatto interamente di vetro e ferro dipinto di bianco, sembra quasi una vecchia stazione, con un grande orologio a ricordare agli acquirenti che il tempo è denaro. Quando torno in strada, dopo essermi soffermato un po' troppo a scattare fotografie, scopro che sono spariti entrambi.
 
Dettaglio di Grafton Street.
La mattina dopo, risalendo per Nassau Street si raggiunge Merrion Square, dove il tempo sembra essersi fermato all'età georgiana. In fondo a una schiera di lucide porte laccate, tutte sormontate da lunette, se ne apre una dipinta di nero. E' quella di un hotel di lusso, da cui spunta fuori un vecchietto, tutto impettito nella sua divisa da facchino, color tortora, con due file di bottoni dorati che gli scivolano dalle spalle. L'ometto scende con piede malfermo i gradini e zoppica verso i nuovi ospiti, appena smontati da un taxi. Poi consegna i bagagli al suo collega più giovane, che gli zampetta dietro col cappellino sulle ventitré, mentre sopraggiunge a grandi falcate un altro buffo signore, nero come un corvo, in redingote e lustro cappello a cilindro. Non troppo lontano, oltre le fronde del parco, dalla roccia su cui è languidamente adagiato, un sempre elegantissimo Oscar Wilde sorride sghembo rivivendo chissà quale marmoreo ricordo.
 
Tipiche facciate in stile georgiano.
Per un esteta come Oscar Wilde non potevano realizzare statua commemorativa
più bella, un capolavoro di geologia applicata alla scultura: la giacca è di giada
canadese, i polsi e il colletto di thulite rosa, i pantaloni di larkivite norvegese,
mentre le scarpe e le calze sono di granito nero indiano. In mano regge un fiore
di pietra viola scuro che non sono riuscito a identificare.
Poco più tardi, dopo uno scroscio di pioggia, ritornando sull'acciottolato bagnato (questa volta d'acqua piovana) di Temple Bar, può anche capitare di inseguire con gli occhi un giovanotto distinto in bicicletta, i capelli chiari schiacciati sotto una coppola beige e il cappotto di tweed in tinta che gli svolazza dietro. Sembra pedalare direttamente dalle pagine di Joyce, per poi attraversare Eustace Street e sparire nella penombra di un ristorante persiano. Oltre le vetrine, incorniciate di legno verde scuro, ricambia per un istante il mio sguardo. Mi sono sempre piaciuti, quegli occhi che sembrano avere un po' tutti qui, nei paesi dal cielo grigio: liquidi, come se dovessero scivolare giù in una lacrima. E quel rossore acquerellato sulle guance, arabesche di capillari che paiono dipinte da un miniaturista medievale.
La volta del cielo torna a incupirsi mentre gli uccelli assediano gli archi a parentesi graffa del piccolo Ha'penny Bridge, da cui qualcuno sta lanciando del pane raffermo. I gabbiani schiamazzano, s'accapigliano, si prendono a beccate e si tuffano in picchiata verso l'acqua grigia del fiume. I cigni invece si tengono a distanza: non sembrano disposti a compromettere la loro dignità per una manciata di briciole. A loro nessuno può torcere una piuma dai tempi del mitico re Lir: i suoi figli, vittime della maledizione dell'invidiosa matrigna Aoife, furono trasformati in cigni per novecento anni, riacquistando sembianze umane solo in corrispondenza della cristianizzazione dell'Irlanda. Troppo deboli per stare al mondo, morirono tutti, ma non prima di essere stati battezzati da San Patrizio (che ha la fastidiosa abitudine di imbucarsi in quasi ogni leggenda celtica.)
 
Il Liffey Bridge, meglio conosciuto come Ha'penny Bridge per l'antico
pedaggio di mezzo penny.
 
 
Sull'altra sponda del Liffey, proseguendo sul lungofiume, in parallelo con Bachelor Walk ("La Passeggiata dello Scapolo") si arriva all'ariosa O'Connell Street. L'appuntamento con Joyce è in Earl Street North. E infatti eccolo lì, immobile, col suo bastone e le gambe incrociate, il viso rivolto verso l'alto. Anche lui "moriva dal desiderio di salire in cielo [...] e di volare verso un altro paese dove non avrebbe più sentito parlare dei suoi guai", e ci riuscì.
Quella di sognare la fuga, in fondo, non è affatto una prerogativa dublinese. Penso a mia madre, che ancora prima di tornare a casa da un viaggio, è già in partenza con la mente verso la prossima destinazione. Quanto a me - non ricordo se è successo a Dublino, o prima di arrivarci, o se mi sia lasciato suggestionare da quella frase di Pensione di famiglia -,  ho sognato di levitare a pochi centimetri da terra e poi, con una spinta delle gambe, schizzare in alto, quasi sfiorando le mura della cattedrale normanna del mio paesino di provincia, svolazzare incerto intorno alla vetta e infine sparire lontano. Quando mi sono svegliato ero nella mia stanza - che sia la mia o una camera d'albergo non importa -, ma ancora pima ero nella scatola del mio corpo, che a sua volta è dentro una scatola un po' più grande, quelle quattro mura attorno a me, che a loro volta sono dentro una scatola più grande, l'intero edificio, e così via, il quartiere, la città, fino al coperchio del cielo.

Illustrazione di Roman Muradov ispirata all'Ulisse di Joyce

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