martedì 20 agosto 2013

Pubblicità insopportabili #25 - Cervel tonnè


Il presente post è dedicato a Doppio Geffer,
che mi ha segnalato quest'imperdibile rarità.

Cosa diceva Angelo Parodi l'ho scoperto da poco, ma so bene cosa dicevano gli antichi: nomen omen. Uno che di cognome fa Parodi, prima o poi, era destinato ad essere parodiato.
Salpato nel 1888, questo eccentrico lupo di mare è finalmente approdato in televisione, con uno spot tra i più enigmatici mai trasmessi.
Famoso per i suoi motti sibillini, Angelo Parodi diceva sempre:
1. "Non fate mai aspettare una signora, ma certamente fate aspettare un tonno."
2. "Chi i miei filetti assaggia, dice: mannaggia!"
3. "Andar pelein (Anne Boleyn???) rende i tonni contenti."


 
Rileggendo queste tre regole d'oro, si assiste ad un climax discendente di razionalità. E' evidente che ognuno di questi tre comandamenti è stato concepito in fasi diverse della vita del signor Parodi, e offrono una chiara parabola del declino delle sue facoltà mentali.
Sul primo punto c'è poco da obbiettare, per quanto accostare donne e tonno mi sembri un tantino indelicato, anche perché, per quanto "il mare sia pieno di pesci", il tonno in scatola rimane il pane quotidiano di quasi ogni uomo single.
La seconda perla di saggezza è già più discutibile. Innanzitutto, perché la prima è in prosa mentre la seconda è in rima? Che il canuto marinaio sia ricorso alla rima per ricordare meglio le sue massime, dato che ormai la sua memoria fa acqua da tutte le parti, nonostante tutto il fosforo assunto?
Ma soprattutto, per quale motivo qualcuno dovrebbe dire "mannaggia" dopo aver mangiato un tonno che si suppone sia squisito? Io "mannaggia" lo direi dopo aver sputato i resti maciullati di una bruschetta spalmata di bottarga avariata. "E' delizioso!" e "Ma che bontà! Ma che bontà! Ma che cos'è questa robina qua?", ecco dei complimenti da fare a un produttore di tonno in scatola di prima qualità! "Vuoi che muoro?", "Questo tonno è talmente pieno di mercurio che ci si può usare la lisca come termometro" e "Mannaggia", invece, sono reazioni inequivocabilmente negative.
Si sa, l'utilizzo improprio di parole come "mannaggia" e la difficoltà di ricordarne l'esatto significato è uno dei primi segnali di demenza senile.
Difronte al terzo aforisma, non sapevo proprio che pesci prendere, perciò ci ho infilzato nel mezzo una bella crux desperationis e ho rinunciato a capirci qualcosa.
Anche perché è ormai chiaro che il poveretto abbia del tutto perso la bussola nautica. Naviga a vista nel mare magnum della follia, le vele sospinte dallo scirocco e dallo sciroccamento: strizza l'occhio a uno squalo martello (che per giunta ricambia l'occhiolino) e poi misura a grandi passi il suo studio, in bilico su una gamba sola, forse pensando ancora di giocare all'equilibrista sul bompresso del suo veliero. Per fortuna lo spot si interrompe qui, risparmiandoci altre patetiche scene della sua deriva mentale: probabilmente lo avremmo visto pomiciare col Nettuno ligneo che fa da polena al suo peschereccio, o fare il bagno nudo sventolando il suo ascot color pinna di tonno.
Come si sarà ridotto in questo stato? Come mai quella che un tempo era una mente imprenditoriale brillante, ora è un cervello che si taglia con un grissino? Sarà stato l'avanzare dell'età? Avrà bevuto troppa acqua di mare? O magari sarà stata colpa del tonno, sempre più imbottito di mercurio?
Per quanto non fornisca alcuna risposta, sono certo che lo spot voglia lasciarci un messaggio di speranza. L'inquadratura sull'aquila d'oro, per esempio, ha un chiaro significato allegorico: secondo le leggende medioevali, con la vecchiaia, la proverbiale vista dell'aquila si annebbiava, ma il maestoso rapace era in grado di rigenerarsi, librandosi nel cielo e lasciando che il sole bruciasse la patina che offuscava i suoi occhi, per poi tornare nuovamente giovane e occhiuta. Così la gloriosa azienda di Angelo Parodi, malgrado la scomparsa del suo lungimirante fondatore, continua a rinnovarsi, a sfidare il mare in tempesta e a solcare a vele spiegate i pescosi canali della nostra televisione.

mercoledì 14 agosto 2013

La Biblioteca Classica di Raffy: Fifty Shades of Earl Grey

Ora che riguardo questa foto di Theo Westenberg, ricordo di aver letto per la prima
volta Emma mentre ero morbidamente adagiato su una sedia a sdraio, durante una
vacanza estremamente rilassante, tra corroboranti docce scozzesi, percorsi benessere
e bagno turco alla vaniglia. Dovrei proprio rifarlo.
 
Si aprono le porte della piccola Biblioteca Classica di Raffy, una nuova serie di post semi-seri dedicati ai miei classici preferiti e/o a quelli meno conosciuti, che mi diverto tanto a scovare per darmi un tono. Sì, so cosa penserete (parafrasando papa Francesco): "Chi sono io per giudicare i classici?", ma in fondo cosa mi impedisce di mettere per iscritto le discutibili opinioni che comunque esprimerei ugualmente a voce? Forse la mia scelta di oggi vi sembrerà un po' "gigiona", ma proprio non potevo fare a meno di dedicare un post, o magari due, a...

Jane Austen è una delle scrittrici che io e tre quarti della popolazione mondiale amiamo di più (evviva l'originalità). E' inutile, Jane è l'unica che riesce ad addolcire lo zitello incattivito che c'è in me. Se uno passa l'infanzia accudito da La tata* e sopravvive all'adolescenza in compagnia di Jane Austen e Carrie Bradshaw, non ci si deve meravigliare se a vent'anni sia ossessionato dall'idea di trovarsi un partner per la vita. Ma questa è un'altra storia...
Tornando a Jane, ho iniziato a frequentarla intorno ai miei quindici anni, partendo con il sempreverde Orgoglio e pregiudizio, che se non ho adorato è solo perché avevo già assorbito per osmosi la trama, infinite volte parodiata, rielaborata e reinterpretata in tutte le salse (anche in salsa al curry, se consideriamo il film bollywoodiano Matrimonio e pregiudizio). In una noiosa serata della tua giovinezza guardi ingenuamente Il diario di Bridget Jones in tv, e rimani inesorabilmente fregato. Il film è esilarante, ma addio effetto sorpresa. La storia è pressoché identica.
Mi meraviglio che non ci sia già un Barbie Orgoglio e pregiudizio. Intanto, no so voi, ma io aspetto con trepidazione anche l'uscita del film tratto da Orgoglio e pregiudizio e zombie, "geniale" idea di Seth Grahame-Smith, che, novello Frankenstein, cuce pezzetti del romanzo originale con agghiaccianti scene horror in cui Elizabeth, oltre che tempestare di frecciatine l'ombroso Darcy, deve anche fronteggiare orde di zombie bramosi di carne umana. Come se tenere a bada Lydia, Kitty e i loro ormoni non fosse già abbastanza.
Mi scuserete, dunque, se ritengo più che superfluo spendere altre parole su questo indiscusso ma bistrattato capolavoro (parlo di Orgoglio e pregiudizio, senza zombie) o sulla trasposizione cinematografica di Joe Wright (con protagonista Keira Knightley, che sembra essere nata con un abito stile impero cucito addosso). Io passerei ad Emma Woodhouse, per gli amici Emma Casalegno, la mia ragazza austeniana preferita. "Sarà un'eroina che non piace a nessuno, tranne che a me" se la rideva Jane Austen durante la stesura di Emma, ma non è affatto vero: il suo fascino deriva proprio dagli innumerevoli difetti che la rendono così adorabilmente umana, essendo costei un'ereditiera snob, presuntuosa, narcisista e frivola, così diversa da altre sue "colleghe" ben più cerebrali e irreprensibili. Emma è stata definita un Don Chisciotte in gonnella: preferisce seguire gli arzigogoli della propria fervida immaginazione piuttosto che accontentarsi di una realtà piatta e banale. Per questo fraintende i propri e gli altrui sentimenti, veste i panni di un maldestro Cupido e si diverte a combinare fidanzamenti tra i suoi conoscenti, così da estraniarsi dal grigiore della sua vita quotidiana, troppa spaventata dall'idea di vivere una vita propria, allontanarsi dalle sontuose mura di Hartfield e lasciare solo l'amato, anziano padre ipocondriaco.
Ora che ci penso c'è un film di Jennifer Lopez con la stessa trama, o quasi: lei interpreta una frigida wedding-planner refrattaria al matrimonio (oltre che agli smarties che non siano marroni.)
Per riprendere il discorso, c'è un motivo se Emma è l'unico romanzo ad avere per titolo il nome della sua protagonista: ciò che la contraddistingue è la sua solitudine, che nasce dalla difficoltà di entrare realmente in contatto con chi la circonda. Suo padre è introverso e timoroso ("Emma cara, faresti meglio a non uscire: è pieno di zombie là fuori"), la sua amata governante è troppo affezionata a lei per poterla consigliare opportunamente e farle passare un brutto quarto d'ora quando se lo meriterebbe, mentre la sua nuova amica, la giovane Harriet, è pronta a darle ragione su tutto ("Sai, Harriet, stavo pensando che saresti graziosissima se ti radessi completamente le sopracciglia, tu non trovi?", "Oh sì, Miss Woodhouse, che idea meravigliosa! Corro a prendere il tosa-erba!"). Abituata com'è a non essere contraddetta, lasciata sola con i suoi monologhi interiori, è più che naturale che finisca per scorgere solo ciò che non esiste e non vedere invece ciò che ha sempre avuto sotto il naso, non prendendo in considerazione, nemmeno per un'istante, l'idea di poter commettere un errore.

 
 Alcuni anni dopo aver letto Ragione e sentimento, mi sono accostato a Persuasione, il canto del cigno dell'autrice, scritto subito dopo Emma e pubblicato postumo, un romanzo che è la trascrizione in parole di un tramonto autunnale: dolce, malinconico eppure abbagliante.
Come credo di aver già avuto occasione di scrivere in una delle mie solite digressioni, la protagonista, l'umile e pacata Anne (l'anti-Emma), si lascia scappare un bel bocconcino di marinaio, malconsigliata da una cara amica di sua madre (che dubito avrà la fortuna di festeggiare il centesimo compleanno). Poi, quando se lo ritrova davanti, sette anni più tardi, tutto abbronzato e bello stagionato, la ragazza - che nel frattempo è un po' sfiorita - si rende conto che la conservazione sotto sale ha donato moltissimo all'oramai capitano Wentworth, e capisce di sbavargli ancora dietro. A questo punto però teme che non ci sia più trippa per gatti.
Su questa semplice trama la scrittrice costruisce la sua opera più struggente, in cui dialoghi e battute di spirito cedono il posto all'introspezione e al silenzio. E' qui che la Austen fa mostra della sua maturata sensibilità, propria di chi ha amato e ha perduto. Persuasione è senz'altro uno dei libri più confortanti che abbia mai letto, e forse anche più illusorio di una fiaba Disney. Consigliatissimo per chi si è pentito delle proprie scelte in fatto di vita sentimentale.
Cinicamente si potrebbe dire che i romanzi di Jane Austen ruotino tutti intorno a matrimonio, pettegolezzi, rendita, matrimonio, valori della nobiltà terriera e matrimonio (per caso ho dimenticato di dire che si parla principalmente di matrimonio?). E poi, sì, ci sono almeno una trentina di personaggi (anche nello stesso romanzo) che si chiamano Mary o Elizabeth o Jane (per quanto non manchino curiose scelte onomastiche come Jemima o Fitzwilliam), senza contare che non succede praticamente niente (uno può anche sognarsi inseguimenti, esplosioni e sessioni di sadomaso: più che di Fifty shades of grey, qui si parla di Fifty shades of Earl Grey.)
Eppure tornare a leggere un libro di Jane Austen è un po' come tornare a far visita ad una vecchia amica. Quando non ti spinge a confidarti con lei, facendoti riflettere sulla tua contorta natura, ti distrae con qualche sano pettegolezzo. Ciascuna delle sue storie è accogliente come la conca impressa dal tuo sedere sulla tua poltrona preferita. Te ne stai lì, col naso incollato alle pagine, a leggere di chiacchiere di paese e proposte di matrimonio, ed è un po' come ritornare alle estati della tua infanzia, quando ascoltavi la nonna chiacchierare con le vicine di questioni di poco conto, tanto per far passare il tempo.
Jane Austen è molto più di questo, naturalmente, è soprattutto ironia, delicatezza e felina sagacia, ma certo è che sa come farti sentire a casa tua.
Continua...

* Da Francesca Cacace, Pamela moderna dai coloratissimi completini Moschino, ho imparato più cose che a scuola, come la regola per cui in ospedale ci si deve sempre vestire in modo provocante.

martedì 6 agosto 2013

Ricordi cordovesi (capitolo secondo)

"E come dico sempre io, se non è barocco è un pastrocchio." (Tockins)
Lo so, vi ho lasciati col fiato sospeso, senza alcuna anticipazione sulla conclusione delle mie rocambolesche avventure a Córdoba. Se può consolarvi, di fiato ne abbiamo avuto ben poco, io e le mie improbabili compagne di viaggio, mentre arrancavamo esanimi per le interminabili rampe della Giralda, il sommo campanile della Cattedrale di Siviglia. Da quanto ho capito, a Siviglia non amano i gradini. Di scale nemmeno a parlarne. Solo rampe. Persino in stazione ci sono rampe mobili, anziché scale mobili, col rischio di sfracellarsi a terra e morire schiacciati dal proprio trolley.
Dicevo... conclusa la nostra gita a Siviglia, dopo aver ammirato la città dall'alto della torre campanaria e aver esaminato dal basso le minuziose decorazioni da mille e una notte dell'Alcázar, siamo ritornati alla californiana Córdoba, che ci ha riaccolti coll'asfissiante abbraccio dei suoi trent'otto gradi centigradi. Peccato non essere riusciti, per questioni logistiche, a visitare anche Granada, la Grande Mela(grana.)
In compenso, però, ci siamo ricreati negli incantevoli, ombrosi e verdeggianti patii del Palacio de la Viana (per la serie "case da sogno"), disquisendo di Averroé, declamando sonetti di Góngora e cercando di stabilire a chi somigliasse la nostra guida. Perché si sa, ogni giardino ha il suo serpente. Smunta, dalla pelle bruna e avvizzita, vestita di verde e tutta tintinnante di gioielli simil-aztechi, per me assomigliava terribilmente a Yzma de Le follie dell'imperatore. Mia madre invece l'ha chiamata tutto il tempo Belfagor (è curioso come a generazioni diverse corrispondano associazioni mentali diverse.) In ogni caso, credo che il suo aspetto si avvicinasse soprattutto a quello di un'iguana: sono arrivato a questa conclusione confrontando la sua faccia squadrata e gli occhi vacui e contornati di nero con i rettili di un antico arazzo francese raffigurante la fauna delle Indie Occidentali.
La sosta successiva del nostro tour è stata la siesta a Plaza del Potro, citata da Cervantes - come afferma orgogliosa una maiolica - nel suo Quijote, "il più bel romanzo del mondo." A pochi passi da Plaza del Potro, c'è il bar-ristorante Sojo, citato da Raffy nel più bel blog del... okay, va be, il paragone non regge, ma in ogni caso vi raccomando questo posto: non c'è niente di meglio di un cocktail ghiacciato all'ombra degli aranci, col sottofondo del ciarlare allegro dei pappagallini e l'ansimare di un riccioluto perro de agua (una razza canina autoctona della Spagna), mentre le acque color giada del Guadalquivir scorrono placide sotto lo sguardo bonario della statua dell'arcangelo Rafael. I ritmi lenti del vivere spagnolo invitano il viaggiatore all'indolenza e invogliano anche il maniaco delle "tabelle di marcia" a fermarsi ogni cinque minuti per spiluccare qualche stuzzichino. Per ogni tappa, un giro di tapas.

Arance di Julio Romero de Torres (1895-1905), il pittore cordovese famoso per i suoi
ritratti femminili ("Da lui è nata la leggenda che le
ragazze di Córdoba siano le più belle
di tutta la Spagna" mi ha ragguagliato Selena, leggermente piccata, "E' per questo
che qui se la tirano tanto...")
In alto a destra Plaza del Potro (Córdoba), al centro un ponte di Plaza de España
(Siviglia), fiabesca piazza neo-moresca ricoperta di maioliche dipinte (ci hanno girato
persino alcune scene di Star Wars), in basso a sinistra la mia mano che solleva
un bicchiere di tè alla rosa e al gelsomino, in basso a destra un balcone chiuso della
Judería (il quartiere ebraico di Córdoba)
 
Poi, tra chiacchiere e frutta secca, arriva l'ora del tè. E che fai, puoi dire di no a un buon tè gusto shampoo alla rosa e al gelsomino in una delle arabeggianti teterías del quartiere ebraico?
L'idea era di bere qualcosa di fresco, ma poi mi sono convinto a ordinare un tè caldo, guardando con menosprecio un turista nordeuropeo  fare tanto il gradasso mente armeggiava su e giù con la teiera per versare elegantemente il tè al suo stuolo di perfetti figlioletti biondi, tutti con gli occhietti azzurri traboccanti di ammirazione.
Ci siamo trastullati così, ora dopo ora, nell'ozio più sfacciato, benedetti dall'acqua nebulizzata che cala misericordiosa dall'alto di ogni bar creando una rifrescante atmosfera da foresta pluviale (anche se, con un caldo simile, avrei preferito piuttosto una secchiata d'acqua gelida in stile Flashdance). Verso sera, giusto per fare un po' di movimento, abbiamo sollevato a fatica il sedere dai cuscini di seta per posarli sulle sedie in prima fila di un ristorantino tradizionale, in attesa dello spettacolo di flamenco, mentre, nel frattempo, abbiamo tenuto occupate le mascelle con un flamenquín, una specie di cordon bleu di forma fallica. L'esibizione è stata intensa, per quanto il duende fosse ostacolato dalle battute di Grace e dalla sua altruistica pretesa di fare vento alla cantaora col suo ventaglio fresco di acquisti. La bailaora assomigliava molto a Sarah Jessica Parker, però con i capelli neri, e vestita meglio. Oltre al fatto che Sarah Jessica Parker non pesterebbe mai così forte i piedi per paura di rovinare le sue Manolo Blahnik.
Non so perché, ma ogni volta che sono in Spagna c'è sempre qualcosa o qualcuno che mi fa pensare a Sarah Jessica Parker.
E a proposito di Sarah Jessica Parker, non credo di essere mai salito su così tanti taxi come durante questa vacanza. Neanche Carrie in tutte le sei stagioni di Sex and the City. Ce la siamo presi comoda come non mai, forse perché, come ha acutamente osservato Selena, non c'erano maschi brontoloni e oltranzisti del risparmio (velata allusione ai nostri padri, comunemente noti come Totò e Peppino: praticamente un mostro a due teste.)
Dopo una tale, sfiancante via crucis gastronomica,  io e Selena siamo ancora abbastanza energici da gettarci a capofitto nella trasgressiva notte cordovese, dove il ritmo caliente del reggaeton di Henry Mendez e Pitbull prende il posto del flamenco. Sì, so che è difficile da credere, ma Pitbull "canta" anche canzoni da solo.
Per la disco del venerdì sera ho sfoggiato il mio nuovissimo look "sono troppo in ritardo per infilarmi la camicia nei pantaloni e abbottonarmela tutta", meglio conosciuto come "sveltina in ufficio", outfit che in patria ha già riscosso un inaspettato successo di pubblico e di critica. Penso proprio che dovrei farla finita una volta per tutte con la mia solita morigeratezza da carmelitano.
Selena, luccicante di paillette, chiama un taxi con la disinvoltura di Serena Van Der Woodsen, e sfrecciamo insieme alla volta del tanto chiacchierato Palazzio. La discoteca non si riempie prima delle quattro, quando io ormai continuo a ballare per inerzia, da sonnambulo. Una specie di abulico burattino animato dalla vodka limón.
C'è da dire una cosa, però, sui modi calorosi degli spagnoli: quando devono spostarsi attraverso folle di discotecari sudaticci, non si fanno largo a spintoni e strattoni come molti rozzi italioti, ma si aprono un varco con estrema, sensuale gentilezza - che siano ragazzi o ragazze -, accarezzandoti soavemente la schiena. Ci manca solo che ti facciano un massaggio. Nessuno tenta esplicitamente di rimorchiare, è uno scambio di effusioni generale che risulta oltremodo rilassante.
Sorto il sole, purtroppo, giunge anche il momento di ripartire alla volta di casa. Così, mogi e avviliti, trolley alla mano, ci dirigiamo verso la stazione, con addosso tutto ciò di cui Selena è riuscita a caricarci (neanche fossimo una carovana di mercanti gitani) per uscire incolumi dal Tribunale dell'Inquisizione presieduto dalle arcigne hostess Ryanair. Mary e Grace, emule della zingara Cloris, si sono dovute ricoprire di maglioncini, t-shirt e bijoux, con una anello ad ogni dito delle mani e dei piedi. A me è andata meglio: la collana di Serena, tutta spuntoni metallici e perle, andava sorprendentemente d'accordo con i miei jeans d'acchiappo aeroportuale e la mia t-shirt bianca con la stampa di Escher. Un po' rockstar in vacanza, un po' gypsy. Ultimamente sto sperimentando mise che non avrei mai pensato di indossare. Mi sa che devo aprirmelo anch'io, il fashion blog.
Non temete: scherzo.
Dopo un interminabile, inelegante ritardo e una serie di esasperanti disguidi coi bagagli, riusciamo finalmente a mettere piede sull'aereo. E' qui che, strizzato nell'angusto corridoio, tra valige volanti e passeggeri sbuffanti come tori a Pamplona, assisto ad una scena tragica degna di Seneca: un'anziana signora dall'aspetto aristocratico, forse un'attrice in pensione, prende posto vicino al finestrino ed esclama a gran voce, con fare teatrale: "La Ryanair non mi vedrà più!" Poi getta indietro la testa e si abbandona ad uno scroscio di risate isteriche, che risuoneranno ancora a lungo nei miei ricordi cordovesi, facendomi sudare freddo. "Sì... ahahahahah... la Ryanair non mi vedrà più! AHAHAHAHA...!"

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