venerdì 22 marzo 2013

Pubblicità insopportabili #20 - A volte ritornano...

Errare è umano, ma perseverare nell'errore è diabolico.
Sto parlando degli insopportabili sequel di spot insopportabili già apparsi su questa rubrica. Ultimamente si è ripresentata in tv, puntuale come l'herpes labiale, la pubblicità dei medicinali Carlo Erba. Non sto parlando della signora stitica con l'abito dalle nuance diarroiche (ve la ricordate?), ma dall'adorabile fanciulla che, a giudicare dai capelli ramati, deve essere sua figlia, affetta da un'emicrania martellante.


Io avrei qualche parolina da rivolgerle...
Innanzitutto, sei un caso incurabile di cafonaggine e maleducazione. Entri in farmacia, senza neanche borbottare un buongiorno, e ti presenti al farmacista con un tono imperioso che nemmeno Christina Yang ai suoi specializzandi.
Oltretutto "Capisci?!" lo vai a dire a tua sorella... capito?
Con chi credi di parlare? Guarda che quello lì è Carlo Erba in persona, non tuo zio Policarpo rintronato dalla demenza senile.
"Voglio che se ne vada via."
Ma non te l'hanno detto che l'erba "voglio" è una pianta officinale che non cresce neanche nelle più fornite verande di Amsterdam?
Non puoi maltrattare il prossimo soltanto perchè ti sei svegliata con un cerchio alla testa. Potevi pensarci prima di scolarti tutti quei margarita al tuo quotidiano aperitivo dopo il lavoro... la prossima volta faresti meglio ad ordinare una Schweppessssssss. Anche perchè è risaputo che fare schweppessssssssss è un rimedio infallibile contro il mal di testa.
E' innegabile, comunque, che Carlo Erba abbia la pazienza di un santo. O che si fumi il suo stesso cognome.



Ma a ritornare a galla, come un ruttino da bevanda gassata, è anche lo spot truffaldino di Coca-Cola Zero. Il lestofante è cambiato, ma l'orrendo crimine è sempre lo stesso: servire a degli ignari consumatori dell'insalubre Coca-Cola Zero spacciandola per la classica, altrettanto insalubre Coca-Cola.
Pensavo che a perpetrare questi abominii fosse solo il lezioso ma luciferino venditore di pop-corn che abbiamo già avuto la sfortuna di conoscere (cliccate qui per rinfrescarvi la memoria), ma a quanto pare l'impenitente delinquente ha diversi complici. La scena del delitto questa volta è un concerto, a servire la bevanda è l'infida bibitara bionda, mentre a rivelare compiaciuto il diabolico inganno è un membro dello staff con la vocetta di Alvin Superstar. Intanto un Grande Fratello riccioluto orchestra tutto dall'alto e si gode lo spettacolo dalla sua postazione video.
Si tratta chiaramente di una società a delinquere.
Avete colto la velata minaccia finale? "Stai attento: il prossimo potresti essere tu."
Dovete soltanto provarci, e a zampillare sarà la vostra giugulare, altro che Coca-Cola alla spina.
E questa sì che è una minaccia.

Wanted: dead or alive.

martedì 12 marzo 2013

Pubblicità insopportabili #19 - Fate l'amore, non fate la spesa!

 
Più vado avanti nella mia missione di fustigatore di pubblicità insopportabili, più si avvalora ai miei occhi la legge delle tre S: niente tiene incollati allo schermo più della trimurti di SESSO, SOLDI e SANGUE, ma soprattutto SESSO. La prova è il patetico spot in cui Emanuele Filiberto tenta di gettarci fumo negli occhi, convincendoci delle virtù (dubbie) della sigaretta elettronica. Piuttosto io userei il Soffiablablà del gabbiano Scuttle o la pipa che fa le bolle. 
Ma non è questo il punto. La nuova, miracolosa sigaretta magica è venduta come "la più sexy". E se lo dice un sex-symbol come Emanuele Filiberto, bisognerà crederci.
Considerata l'avaria, la nauseabonda marcescenza della classe politica italiana, c'era quasi da sperare in un Regno d'Italia 2.0, ma basta una sola occhiata al principe per dissipare come fumo qualsiasi nostalgia monarchica.
 
 
Ma torniamo al sesso, infilato gratuitamente un po' dappertutto, come un cavolo a merenda. La sigaretta, perlomeno, è associata da tempo immemore al relax post-coitale, ma non posso fare a meno di chiedermi quale recondito legame possa mai esserci tra il sesso e lo yogurt, che ricordiamo, è sostanzialmente latte raggrumato e brulicante di batteri (se c'è qualche associazione, è abbastanza disgustosa da non poter essere scritta in questa sede). Io lo yogurt (di soia) lo mangio a colazione, ancora catatonico, senza provare il benché minimo prurito sessuale. Perciò non posso fare a meno di stupirmi guardando l'ennesimo spot della Müller, ditta che da anni ormai incoraggia le più originali pulsioni parafiliache: si può solo sperare che nessuno abbia preso alla lettera il fortunato slogan "Fate l'amore con il sapore", ma non ci giurerei. Il nome stesso della ditta, Müller, suona particolarmente mellifluo. Potrebbe essere il nome di un baffuto sessuologo tedesco con il vizio della mano morta.
 
 
L'ultima pubblicità è il trionfo del mummy porn, dei doppi sensi e delle allusioni neanche poi tanto velate: in un grande prato verde, dove nascono gravidanze, il grande prato dell'amor (tanto per intenderci) un gruppo di giovani donne consumate dalla libido (si tratta quasi certamente di detenute appena evase da un carcere femminile) evocano, come delle allenatrici di Pokémon, i loro uomini ideali, spiezzando in due la doppia confezione di un Müller Mix. Davanti ai loro occhi compare così una composée osé di frutti proibiti, un We are the world di figaccioni dagli sguardi seducenti, ognuno associato a un gusto. C'è solo l'imbarazzo della scelta. Una strusciatina con l'aitante tartufino al cioccolato o una limonata in amicizia col biondino gusto lime? Una pomiciata acrobatica col samurai dagli occhi a mandorla o un gioco di sguardi roventi col mirtillo dagli occhi indaco (figlio illegittimo Liz Taylor)?
Non si può non spendere una parola sul sussurro lascivo con cui tali gusti vengono enunciati...
Chi mai, dal fruttivendolo, si lascerebbe scappare gemiti voluttuosi come: "Ah... sì... ancora... sì... mirtilli..."?
Ogni mix di frutta, oltretutto, ha il nome di una località, da Bora Bora a Marrakech: vorrebbe essere un invito al turismo sessuale?
Lo spot non risponde a questi interrogativi, ma si conclude appena prima di quella che, presumibilmente, sarà un'allegra e gaudente orgia campestre.

venerdì 1 marzo 2013

"Anna Karenina", le nouveau parfum de Joe Wright

La locandina fa molto "Cronache di Narnia" per adulti.

Tutti sappiamo, anche senza aver letto l'imponente capolavoro di Tolstoj (ehm...), che Anna Karenina finirà col cedere all'estenuante corteggiamento del conte Vronskij. Allo stesso modo, è praticamente impossibile per lo spettatore resistere alle seduzioni di un abile esteta come Joe Wright. La nuova sfida letteraria del regista strega la vista, prima e più di qualsiasi altro senso. Ogni superficie è lucida, attraente, come il manto di una pantera: anche il minimo dettaglio è concepito per sedurre e predare.
La luminosità georgiana del suo Orgoglio e pregiudizio riaffiora soltanto a tratti, soprattutto nelle scene di vita rurale con protagonista Kostantin Levin, ma i paesaggi aurorali, i quadretti domestici e i candidi marmi di Pemberley sono solo un ricordo: a dominare sono i giochi di luci e ombre creati dagli intarsi d'oro ed ebano, i lampadari di cristallo, i magnifici costumi, le perle e i gioielli, le pareti foderate di seta, il paisley e il damascato. Una volta fiorita tra le verdi distese della campagna inglese, la semplice, eterea bellezza di Keira Knightley, più artistica che sensuale, si moltiplica e si riflette nelle fughe di specchi e nello sfarzo della Russia ottocentesca, fino ad abbagliare.
Acceca e disorienta anche la torbida soluzione narrativa: se in Orgoglio e pregiudizio gli eventi procedono lenti e regolari, come una piacevole passeggiata in carrozza (se pur con qualche malumore atmosferico tipicamente britannico), le vicissitudini di Anna Karenina si susseguono a scatti, come spinte dal turbinare frenetico dei pistoni di una locomotiva. Anna, l'algido Karenin, il magnetico Vronskij e tutti gli altri personaggi si muovono sul suolo instabile di una scena teatrale in continua trasformazione. D'altronde la storia della fedifraga Anna Karenina è la storia di una sfida al perbenismo e all'ipocrisia della società ottocentesca, dunque lo scenario più adatto a rappresentarla non può che essere il teatro, vetrina in cui, per secoli, si è esposta la propria rispettabilità, ma anche tribunale in cui, spesso, insieme allo spettacolo, andavano in scena le pubbliche umiliazioni. Non è all'opera che la contessa Olenska scandalizza la società newyorkese de L'età dell'innocenza? E non è a teatro che la marchesa de Marteuil comprende di essere irreparabilmente rovinata, una volta che Le relazioni pericolose da lei orchestrate sono diventate di dominio pubblico?
Entrare a teatro (dal greco, "luogo in cui si guarda"), nell'Ottocento, vuol dire esporsi allo sguardo critico e severo della Società.

Via col vento gelido dell'inverno russo.
La scelta della rappresentazione teatrale, per quanto a suo modo sensata, non è tuttavia priva di rischi: filtrando la storia di Anna attraverso non soltanto lo schermo, ma anche il palcoscenico, non si fa che ricordare costantemente allo spettatore che ciò che ha davanti è solo finzione. In questo modo non si finisce col ridurre i personaggi a marionette, automi senz'anima che perturbano, invece di emozionare?
La stessa, opulenta, bellezza visiva non rischia di attirare su di sé tutta l'attenzione, smorzando la forza dei dialoghi e quasi azzerando l'accompagnamento musicale?
Lo splendore esteriore, barocco, dell'immagine può essere accusato di soffocare l'universo interiore dei personaggi e le tematiche del romanzo: l'ipocrisia, la gelosia, la fede e la fiducia, il mondo pastorale contro quello urbano, la lunghezza spropositata dei baffi...
Ma si può dire che l'impresa stessa di condensare in due ore i fiumi di parole scaturiti dall'instancabile penna di Tolstoj sia già in partenza azzardata. La serie tv sarebbe probabilmente la forma più congegnale: lo stesso romanzo, in origine, venne pubblicato ad episodi.
Metà della critica tesse lodi su lodi, l'altra metà obbietta che la sola bellezza patinata della pellicola non può essere sufficiente per suscitare emozioni. Quest'ultima è un'affermazione che, a mio giudizio, nasce dall'ossessione di voler vivisezionare a tutti i costi la bellezza, alla ricerca disperata di una morale.
Sì, guardando Anna Karenina, si ha spesso l'impressione di guardare lo spot di un profumo, ma perché demonizzare la magnificenza estetica e scenica, la perfezione stilistica? Non c'è stato un tempo in cui la bellezza era di per sé un'emozione? Sufficiente a giustificare l'arte?
Penso che ciò di cui Anna Karenina abbia bisogno sia una seconda visione, per svelare i suoi pregi migliori. Quanto al romanzo, spero di riuscire a trovare il tempo anche per una sola lettura.


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