lunedì 31 marzo 2014

La Biblioteca Classica di Raffy: Oh oh piccola Cathy

"Cause you're Heath and you're Cliff / A real hieroglyph / You're in then you're out
You're up then you're down /
You're wrong when it's right / It's black and

it's white / we fight, we break up / we kiss, we make up..."
(Heath n Cliff, di Catherine Earnshaw)
Cime tempestose ha ispirato film, fiction, canzoni in falsetto, balletti imbarazzanti e romanzetti rosa con in copertina statuari belloni dalla chioma al vento e la camicia strappata sul petto che stringono per le cosce fanciulle dall'aria estatica. Quando mi soffermo a riflettere sull'opera di Emily Brontë, però, io, come la maggior parte delle persone, penso immediatamente a Katy Perry. Entrambe nate da ecclesiastici, ed entrambe divenute famose sotto il segno dello scandalo.
Il succitato romanzo, unico parto letterario della figlia di un reverendo, fece andare di traverso il tè a gran parte della critica del tempo: un libro cupo, intossicante, pieno di gente che non sa dire neanche "che ora è?" o "mi passi il sale?" senza far cadere qualche santo dal paradiso, un malsano focolare dove ardono antichi rancori e superstizioni contadine, il tutto associato a rischiosi incroci genetici, violenze domestiche e discutibili metodi pedagogici. Le recensioni andavano da "E' un libro... strano" a "Come una persona possa cimentarsi nella lettura di un libro del genere senza suicidarsi dopo una dozzina di capitoli, è un mistero. E' un compendio di umana depravazione e innaturali orrori!"
Qualcuno ha avuto da ridire anche sull'iperrealismo linguistico: dovendo leggerlo in lingua originale per un esame di letteratura, non ho potuto evitare di covare un odio ardente per il già di per sé odioso servo Joseph, che si esprime solo in un impervio dialetto dello Yorkshire. Per me e la povera Isabella Linton, così chic e beneducata, non c'era verso di capire un'acca delle sue maledizioni bibliche.
Sicuramente non imprecavano mai i genitori di Katy Perry, entrambi predicatori, che non le permettevano di ascoltare "musica pagana." Così la California gurl è dovuta crescere a suon di Ave Maria e gospel (spero quantomeno che nascondesse i cd compromettenti sotto le assi del parquet come Lane Kim). Era inevitabile che, dopo un primo battesimo musicale con il country cristiano, Katy esplodesse in una sana, liberatoria canzonetta sulle sue fantasie saffiche, I kissed a girl. Per non parlare di Peacock, un brano falloforico in cui, dietro la ruota del pavone, peacock, si nasconde un cock di "fine architettura." Da lì a sparare panna montata dal reggiseno il passo è breve.
In America hanno un nome per questo genere di exploit trasgressivi: "prechear's kid syndrome", ovvero la sindrome del figlio di predicatori. Appartengono al club il filosofo Friedrich Nietzsche (un titolo a caso, L'Anticristo), il regista notoriamente ateo Ingmar Bergman e la shock-rock star Alice Cooper, tutti non esattamente dei chierichetti. Dato che in Italia non è così facile trovare figli di sacerdoti senza scomodare Lucrezia e Cesare Borgia, o comunque non è facile riconoscerli, il nostro unico punto di riferimento per analizzare questo fenomeno è Settimo Cielo. E la cucciolata del reverendo Camden non è poi così senza peccato: Mary e Lucy, per esempio, saranno anche ragazze casa-e-chiesa, ma fanno il giro largo.

Katy Perry si è chiaramente ispirata all'antica iconografia cristiana della Madonna del Latte,
anche detta Galactotrofusa o Virgo lactans, nella quale la Vergine viene ritratta nell'atto di
 allattare il figlio o spruzzare latte direttamente nella bocca di un Santo o un alto prelato.
Oltre allo spirito ribelle, Katy ed Emily sono accomunate dall'essere inguaribili gattare. Se la prima non si separa mai dalla sua Kitty Purry e riempie di felini i suoi video-clip, la seconda, oltre ad aver scritto un saggio in difesa del gatto, Le chat, manifesta più volte in Cime tempestose la sua vocazione lettiera-ria con frasi come: "conoscete quel particolare stato d'animo quando si è seduti da soli e la gatta sta leccando il gattino sulla stuoia davanti a voi e voi la guardate con tanta attenzione che se soltanto dimentica di leccare un orecchio, la cosa vi mette di pessimo umore?" Come no, mi succede tutti i giorni.
A dire il vero sono molte le similitudini e le allegorie con protagonisti cani e gatti che si inseguono per le turbinose pagine di questo capolavoro. D'altronde si tratta di una continua lotta degli opposti: meglio la civiltà o la natura selvaggia? La ragione o il sentimento? Il paradiso o l'inferno? Ma soprattutto, meglio il capello biondo o il capello bruno?
Un po' come Carrie Bradshaw, divisa tra due uomini, anche Catherine Earnshaw, egoista e volubile, si trova costretta a scegliere tra il raffinato Edgar Linton e il suo compagno di scorrazzate per le brughiere, Heathcliff (solo a dirlo la bocca fa scintille... Heathcliff!), trovatello un po' hot and un po' cold, che col tempo si trasformerà in un vendicativo, sadico demonio. Certe volte ho il sospetto che abbia ispirato lui alcune scene di Shining:
"... Mentre sedevo pensando a queste cose, la finestra alle mie spalle cadde sul pavimento per un violento colpo vibratogli dall'uomo che ho appena nominato, e il suo volto torvo apparve minacciosamente. La sbarre della finestra erano troppo vicine perché egli potesse farvi passare le spalle [...] I suoi capelli e i vestiti erano bianchi di neve, e i suoi denti aguzzi e cannibaleschi, che il freddo e la collera scoprivano, scintillavano nelle tenebre. 'Isabella, lasciami entrare o te ne farò pentire!' ringhiò..."
Insomma, due come Catherine e Heathcliff, legati da un amore morboso e distruttivo, li si ama e li si odia ad intermittenza. In un capitolo ti fanno venire gli occhi lucidi per la loro bruciante, imperitura passione, in quello successivo vorresti spingerli giù da una rupe, o da una qualsiasi cima tempestosa.
Ora che ci penso... ci sono le cime e c'è tanta gente scorbutica che fa fatica ad esternare i propri sentimenti: se non fosse ambientato tra le brughiere dello Yorkshire, "il paradiso del misantropo" potrebbe benissimo essere la murgia. Cime di rapa tempestose. E' una coincidenza che mia nonna abbia il vezzo di chiamare "Catarìn" le sue nipoti (ma anche altre ragazze), nonostante nessuna di loro si chiami Caterina?
Tra le Catherine concepite dalla Brontë, comunque, ho sempre preferito quella di seconda generazione (e se non avete letto il libro sarebbe meglio fermarsi qui.) La piccola Cathy (altrimenti detta Cathy 2.0) ha preso il meglio dei genitori: l'effervescente vitalità della madre e tutta l'eleganza e la bontà di suo padre. E poi è bionda. E legge di più (anche libri in greco e latino.) Come dice la governante Nelly Dean: "Non si può vedere [ma anche leggere di] Cathy Linton e non amarla."
E infatti non lascia indifferenti i suoi cugini, Linton Heathcliff (un nome, un ossimoro), lamentoso e malaticcio, né soprattutto il timido Hareton Earnshaw, un po' rozzo e inselvatichito, come lo sarebbe chiunque dopo essere stato allevato da un padre alcolizzato, un vecchio servitore filisteo e un perfido usurpatore, e aver trascorso l'infanzia in allegri passatempi come impiccare cuccioli di cane. Alla fine però Hareton viene su un bel ragazzone di diciotto anni, con quel sex-appeal da zotico di campagna che torna tutto a suo vantaggio.
In apertura del romanzo troviamo una Cathy II decisamente invelenita dal dolore e dalla segregazione a Wuthering Heights, che trova la sua unica fonte di diletto nel ritagliarsi qualche minuto per leggere davanti al camino e spaventare il superstizioso, vecchio Joseph assicurandogli di fare progressi nello studio della magia nera. Quando le vengono tolti anche i suoi amati libri, s'inventa il passatempo di intagliare le bucce di rapa (!) a forma di uccelli e altri animali.
Più tardi però l'infelice Cathy sarà protagonista di quella che per me è una delle scene più commoventi e luminose mai descritte da Emily Brontë: il momento di estrema tenerezza in cui insegna ad Hareton a leggere (guardate il minuto 4:27 di queste scene tagliate e poi rianimate de La Bella e la Bestia e ditemi se non vi sembra si siano ispirati a quei due.) Non so perché io, a differenza di molti, preferisca la seconda parte di Cime tempestose alla prima, e perché ami in particolare questo passaggio. Forse perché l'ho letto al liceo, quando trovavo l'analfabetismo un caratteristica affascinante. O probabilmente perché all'epoca era più facile convincersi che dare ripetizioni di greco prima dei compiti in classe equivalesse a un appuntamento romantico. Una cosa è certa: allora era molto più facile credere nel Teenage Dream!

lunedì 24 marzo 2014

"Il richiamo del cuculo" di Robert Galbraith/J.K.Rowling

Il richiamo del cuculo di Robert
Galbraith, Salani, 547 pg., 16, 90 €
I gialli di solito terminano con una confessione. In questo post inverto l'ordine: confesso che molto probabilmente non avrei letto Il richiamo del cuculo se dietro lo pseudonimo di Robert Galbraith non si fosse celata J.K. Rowling. La sua abilità nel nascondere indizi, per poi farli detonare all'ultimo in sorprendenti colpi di scena, era emersa nella saga del mago di Hogwarts (già Harry Potter e la Camera dei Segreti poteva essere considerato un piccolo giallo in salsa fantasy), perciò sono rimasto un po' deluso dalla prima, piatta metà di questa crime novel dalla trama piuttosto classica.
In compenso il resto è decisamente più sprint e si cede sin dalle prime pagine al fascino scontroso del protagonista, l'imponente, "hagridiano" Cormoran Strike, detective militare dal passato familiare ingombrante, con il cuore spezzato e una gamba lasciata in Afghanistan, che accetta per urgenti necessità economiche di investigare su un caso apparentemente già risolto. L'ambiente in cui deve imparare in fretta ad orientarsi, costantemente illuminato dai flash e assediato dai paparazzi, non ha nulla a che vedere con la disciplina e il rigore a cui è abituato, ma è anch'esso, a suo modo, un campo di battaglia, quello del fashion. Nel cuore di una nevosa notte d'inverno, Lula Landry, richiestissima supermodella, "la Nerfertiti della moda", precipita dal balcone del suo appartamento a Mayfair, esclusivo quartiere londinese. La vita di Lula è durata il tempo di un folgorante, insidioso giro di passerella, sotto gli sguardi di una front row di personaggi sospetti: stilisti, rapper, arrampicatrici sociali, eroinomani, avvocati e pezzi grossi della Londra che conta.
Con mio sommo diletto, la Rowling, passando dalla parte dei maghi a quella dei Babbani, non ha rinunciato al suo amore per i nomi parlanti. Cormoran è un gigante uscito a grandi passi dalle leggende della Cornovaglia, terra d'origine del protagonista, ed è inoltre interessante notare come i nomi del detective e della sua intraprendente segretaria interinale siano entrambi ricoperti di piume.* "Cormoran" ha solo una "t" in meno di cormorant, cioè "cormorano", animale di grandi dimensioni, non esattamente un bel vedere, ma capace di immergersi in gran profondità per catturare anche le prede più sfuggenti. Robin invece sta per "pettirosso", uccellino insospettabilmente spavaldo e curioso, ma assurto spesso anche a simbolo di rinascita e carità (per le leggende medievali, si macchiò il petto del sangue di Cristo nel tentativo di togliergli la corona di spine). E' chiaro, anche senza il gioco onomastico, che presto o tardi questi due inizieranno a tubare come piccioncini a primavera.
In questo esordio nel noir la scrittrice sembra voler scassinare dall'interno la gabbia dorata della celebrità, non perdendo l'occasione di lanciare accuse più o meno pungenti alla rapace stampa britannica, che tanto l'(ha) assilla(ta).
Il richiamo del cuculo non è un capolavoro, e sono convinto che J.K. Rowling possa fare molto meglio di così, ma la sua scrittura rimane sempre accogliente: quando non ti tiene col fiato sospeso, riesce comunque a intrattenerti piacevolmente. Non resta che aspettare le avventure successive (la prossima, The Silkworm, "il baco da seta"), sperando che per Cormoran Strike questo caso sia stato solo un riscaldamento.


J.K. Rowling voleva godersi la tranquillità dell'anonimato,
ma un uccellino ha cantato. Illustrazione di Matt Blease per
The Guardian.
* Lieve SPOILER. Non solo i personaggi principali hanno nomi pennuti. La madre di Cormoran, Leda Strike, era una famosa groupie rimasta incinta del suo idolo, la rock-star Jonny Rokeby. Nella mitologia greca Zeus si trasforma in cigno per insidiare Leda, che deporrà poi le due uova da cui sgusceranno Elena, Clitennestra e i gemelli Castore e Polluce. Come molti semidei nati dai flirt tra il re dell'Olimpo e le comuni mortali, anche Cormoran Strike si ritrova un padre assente e donnaiolo e almeno una decina di fratellastri sparsi per il mondo.

lunedì 17 marzo 2014

Una serie di accademici accadimenti VIII - Senza vergogna

Non per stomaci delicati.
Avete presente quella canzone deprimente di Notting Hill, quando Hugh Grant deve fare i conti col fatto che Julia Roberts l'ha mollato? "Ain't no sunshine when she's gone... only darkness everyday..." Sì? Immaginate di ascoltarla ogni mattina mentre andate all'università, come succedeva a me, al mio primo anno. Ogni giorno, per almeno un mese, la stessa musica malinconica, dai monitor pubblicitari, mi accoglieva nel sottopasso della stazione. E anche quando risalivo lento e sonnolento la scalinata e riemergevo in superficie, quelle tristi parole continuavano a ristagnare nella mia mente. "Ain't no sunshine when she's gone... only darkness everyday..."
Non ero Hugh Grant, ma solo una matricola riluttante, e la strada lungo cui mi trascinavo non poteva essere più diversa da Portobello Road: monotona e squallida, tappezzata da centinaia di manifesti fluorescenti da cui Moira Orfei mi rivolgeva altrettanti sorrisi tirati.
La fine del liceo era arrivata troppo presto: mi ero aggrappato disperatamente al banco che dividevo con le mie migliori amiche, finché non avevano dovuto scrostarmi via come una vecchia Big-Babol fossilizzata e trascinarmi per le caviglie lungo tutto il tragitto fino all'università. Si stava così bene, al liceo... ero così felice, al liceo... ero praticamente il toy-boy di mezza classe, al liceo! E ora che era tutto finito mi sentivo come un ragazzino di Ti lascio una canzone dopo la pubertà, quando è troppo vecchio per intenerire gli anziani. Chi mi avrebbe più coccolato, vezzeggiato, e alle occorrenze anche insidiato, se non le mie adorate compagne di classe? Amanda, Miranda e Veneranda non mi avrebbero più condotto con la forza nelle scale d'emergenza per abusare del mio virgineo corpo, e questo pensiero mi uccideva. Mi sentivo inesorabilmente condannato all'anonimato e alla solitudine.
Ma mentre riguardavo mentalmente gli highlights della mia vecchia scuola, 'sì bella e perduta, non potevo immaginare che per qualcun altro gli anni delle superiori potessero essersi rivelati un vero e proprio inferno. Betulla, la ragazza che avrebbe illuminato come un faro la mia avvilente vita universitaria, portava ancora i segni della collisione tra il suo zigomo e il tacco delle scarpe di una compagna di classe convinta di essere Heather Parisi e ricordava con sofferenza quel "due" immotivato che le aveva dato una professoressa troppo incattivita dal suo divorzio per essere obbiettiva (non è da escludere che fosse stretta di voti anche col coniuge: "non mi soddisfi sessualmente: ti becchi 'due' sul registro!") Eppure, queste disavventure non avevano cancellato il suo radioso sorriso.
Quando ci siamo conosciuti, qualche settimana dopo l'inizio delle lezioni, è stato per delle fotocopie di francese che Betulla si era gentilmente offerta di fare per me. E a quel punto, nella mia mente, è partita She di Elvis Costello. Avevo già notato le ciocche rosa shocking tra i suoi capelli biondo crema, che mi avevano ricordato tanto le venature di una vaschetta di gelato variegato all'amarena. Non mi era sfuggita la forma perfettamente elicoidale del ciuffo davanti agli occhi, né le sue deliziose lentiggini, che le punteggiano le guance come i semini di una fragola ("sheeeee... may be the face I can't forget...") Sarebbe stato impossibile non accorgersi di quella bambolina dalla sciarpa animalier sui toni del fucsia e la borsetta a forma di matrioska, sempre in equilibrio sulle scarpe zeppate e glitterate d'argento, come una novella Dorothy (le scarpette rosse di Judy Garland discordano con la versione originale di Frank L. Baum.) Vedendomi triste e ingessato come un Uomo di Latta poco lubrificato, mi si è avvicinata e mi ha preso caritatevolmente per mano.
Betulla a quei tempi usciva da una storia complicata con Marilagna, una compagna di corso che aveva conosciuto a lezione di inglese e che dopo neanche cinque minuti si era messa in testa di essere la sua amica del cuore. Era stato un colpo di fulmine in stile La vita di Adele, ma non così corrisposto. Col tempo l'attaccamento di Marilagna si era fatto sempre più asfissiante, al punto da esplodere in folli scenate di gelosia ogni qual volta che Betulla mostrasse segno di voler ampliare la cerchia delle proprie amicizie universitarie. Un giorno Marilagna era arrivata persino ad inviarle una delirante lettera in endecasillabi saffici in cui l'accusava di averla crudelmente illusa. D'altronde si sa: frequentare insieme le lezioni, imbucare insieme lo statino per prenotarsi agli esami e sbeffeggiare i professori alle spalle sono tutti inequivocabili segnali d'amore! Per quanto Betulla abbia provato a chiarire le cose, da quando ha stretto amicizia con me, Marilagna le ha tolto il saluto, giurando vendetta e nascondendo l'anemico viso dietro l'unta cortina dei suoi capelli neri. Ancora oggi mi aspetto di essere rapito da uno stormo di scimmie alate da un momento all'altro.
Da allora io e Betulla siamo diventati inseparabili. Tra una lezione e l'altra, ridacchiando della pronuncia del professor Troietta ("The basic form of the past tense in English is the Past Simpollaaaah...") e canticchiando i motivetti delle apine sexy di MielPops, abbiamo scoperto di essere abbastanza diversi da non smettere mai di stupirci l'un l'altro. Betulla, ad esempio, preferisce fragole e i frutti rossi, io quelli tropicali; Lei ha riserve inesauribili di energia, e non ha bisogno di assumere bevande nervine né di dormire per rimanere attiva, mentre io necessito come minimo di otto ore di sonno e un caffè al ginseng per non passare una giornata intera a sbadigliare. A differenza mia, è sempre stata perfettamente in grado di barcamenarsi tra studio e vita sociale, col risultato di essersi laureata col massimo dei voti ed essersi felicemente fidanzata, senza contare che trova anche il tempo di sperimentare nuovi sport come il gravity-yoga o il Batuka, una specie di frenetica Zumba afro-caraibica. Betulla, sempre allegra e solare ("sheeee... who always seems so happy 'n proud..."), si incupisce solo all'approssimarsi di un esame, quando io invece mi lascio travolgere da una strana euforia che mi porta, pochi minuti prima della prova, a ripescare dalla memoria vecchie canzoni degli anni novanta, rivolgermi in modo sfacciato a compagne di corso che non conosco ("Ma te l'hanno mai detto che sei uguale a Prue di Streghe? Sì, quella che faceva anche Brenda in Beverly Hills! Sei proprio identica, hai anche il neo al posto giusto!", oppure "Mi ricordi tantissimo Lucrezia Lante della Rovere, lo sai?") o conversare con i poster appesi in facoltà ("Che c'è, Sam? Perché mi guardi così?" ho chiesto una volta al ritratto di Samuel Beckett affisso nella biblioteca di inglese, ma se dovevo aspettarmi una riposta tanto valeva aspettare Godot.)
Allo stesso tempo io e Betulla siamo abbastanza simili da capirci alla perfezione: anche lei adora inventare auguri di Natale in rima e neologismi come "sfotticitare" (cioè "citare qualcuno con l'intento di prenderlo in giro") o "menatelo" (l'opposto del menarca), in più nessuno dei due prova la benché minima vergogna ad ammettere di dividere il letto con un orso di peluche: io ho adottato Lotso, l'orso color vinaccia e profumato di fragola di Toy Story 3, quando mia sorella è andata a studiare fuori, mentre Betulla ha salvato dall'estinzione un orso polare dal muso così appuntito che il suo ragazzo voleva a tutti costi chiamarlo "Supposta", finché non sono intervenuto io e l'ho convinta a battezzarlo "Siluro", nome più musicale e un filino meno osceno. 
Quando siamo insieme, io e Betulla abbiamo l'insana tendenza a ingozzarci senza vergogna come se la prova costume non dovesse mai arrivare: è ormai tradizione festeggiare i successi accademici da Burger King. E non fate quella faccia: quando ci vuole, ci vuole. Recentemente, poi, dopo una piccola, fallimentare incursione nel mondo dei centrifugati di frutta e verdura, siamo passati dal junk food ai dessert ipercalorici. Ormai non c'è incontro che non cominci in sollucchero con una bella dose di zucchero presso la nostra pasticceria preferita, un posticino raccolto e fru fru, di quelli in cui qualunque maschio si vergognerebbe a farsi vedere. Ma l'imbarazzo di reggere un piattino rosa confetto, ingobbito su un sgabello per lillipuziani, senza sapere bene dove mettere il metro e passa di gambe che mi ritrovo, è pienamente compensato dai superlativi cup-cake. Su questa delizia inizialmente avevo qualche riserva, soprattutto per quanto riguarda il topping, dolce fino alla nausea e impossibile da mangiare senza spalmarselo in faccia. Poi ho guardato una vecchia replica de Il boss delle torte e  Mary, la starnazzante sorella di Buddy Valastro, mi ha rivelato una metodo infallibile per abbuffarsi di tortini senza l'inconveniente della maschera facciale alla crema di burro: basta tagliare il fondo del cup-cake e spiaccicarlo sul topping, così da smorzarne la stucchevole dolcezza e ottenere un piccolo panino, da mangiare in pochi morsi.


Come mangiare un cup-cake secondo il Metodo Mary Valastro. Se volete gustarvelo
 in modo ancora più elegante, potete seguire anche il Metodo Magnifico, inventato 
dalla mia amica Anny: è identico a quello di Mary, ma prevede l'uso del cucchiaino 
o di una forchettina.
Quando si condivide del cibo ad alto contenuto lipidico, si sa, non si può non condividere tutto. Si crea immancabilmente un legame speciale che incoraggia le confidenze. E Betulla è senz'altro il genere di persona con cui è facile aprire il proprio cuore. Qualcuno però esagera, come il collega da lei affettuosamente ribattezzato Cup-Checca, che non perde occasione per raccontarle i dettagli, assolutamente non richiesti, della propria funambolica vita sessuale, non esimendosi anche dall'inventariare davanti a lei tutti gli acquisti fatti al suo sexy-shop di fiducia: "Hey, 'Tulla, devo farti vedere assolutamente il mio nuovo dilatatore ana..."
Avendola scambiata per la sua sessuologa, Cup-Checca si dilunga in dettagliate descrizioni ovunque la incontri, che sia a lezione, al cinema, al pub, per negozi con sua madre o in yogurteria (dove, dopo simili discorsi, diventa difficile non guardare con sospetto il proprio frozen yogurt.) In più, come il Todd di Scrubs,  ha la straordinaria capacità di captare qualsiasi conversazione pruriginosa si stia intavolando a distanza di chilometri.
"Di che parlate?" ci ha chiesto una volta, cogliendoci di sorpresa nei pressi del dipartimento di anglistica.
"Oh, nulla... di un film" ha risposto evasiva Betulla.
"Quale?" ha subito inquisito Cup-Checca, dilatando le narici (forse dal sexy-shop compra anche dilatatori nasali.)
"Shame. L'hai visto?"
La domanda suona alquanto retorica, dato che si tratta di un film sulla dipendenza sessuale, per di più con Michael Fassbender come protagonista, e infatti Cup-Checca ha risposto prontamente, quasi offeso: "Certo! Hai visto quant'è..."
"Enorme? Sì, be', era difficile non notarlo..." ha ammesso suo malgrado Betulla.
"Fass... bender..." ho scandito, pensieroso. "Il nome stesso è evocativo. Fassbender... mi fa pensare a qualcosa di elastico, ma allo stesso tempo robusto e vigoroso..."
Anche Cup-Checca ci ha pensato un po' su: "Sì, solo a dirlo ti riempie la bocca come un pom..."
Vi basta sapere che la parola in sospeso non era "pomodoro." Rimasti agghiacciati per qualche secondo, Betulla e io ci siamo affrettati a congedarci.
Passare ore ed ore seduti attorno a un tavolino shabby-chic, tra quattro pareti tinte di lilla, con in mano una leziosa tazzina a fiori e davanti agli occhi un cup-cake ricoperto di stelline di zucchero ci ha resi evidentemente un po' troppo sensibili alla volgarità verbale. Non che Betulla sia mai stata sboccata: il massimo delle imprecazioni che ho sentito sfuggirle dalla bocca è "che strazio!" Adoro poi i vocaboli forbiti che cerca lodevolmente di riportare in auge nel parlare quotidiano. Basta dire che durante una partita a Taboo ha cercato, sopravvalutandoci, di far indovinare a noi compagni di squadra la parola "meticolosità" spiegandola come "un sinonimo di acribia."
Sono tante le cose che potrei ancora raccontare di Betulla ("Sheeeee... may be the reason I survive..." all'università) Come del fumetto che ho disegnato sulle avventure del suo alter-ego, l'incredibile Y-Girl, o di tutte le volte che mi ha ripetuto di guardare Shameless, una delle sue serie tv preferite. Ed è così che mi sento con lei sottobraccio: senza vergogna, e libero di tuffarmi in qualunque follia. Follie semplici e innocenti, come delle meches rosa neon.
"... me, I'll take her laughter and her tears... and make them all my souvenirs..."



Una serie di accademici accadimenti:
Episodio I - Stranieri e strani estranei
Episodio II - Grandi speranze
Episodio III - Legami chimici
Episodio IV - Studenti esasperati
Episodio V - In balìa della balia
Episodio VI - C'era una svolta
Episodio VII - Volver
Episodio VIII - Senza vergogna
Episodio IX - Chiamatemi (un) dottore

mercoledì 5 marzo 2014

Jeppetto e la Fata Turchina

Kiss me, kiss me Licia...
Quando mi sono reso conto che i soli film da me recensiti quest'anno hanno vinto gli Oscar per il Miglior film d'animazione e la Miglior canzone (Frozen), le Migliori scenografie e Migliori costumi (Il grande Gatsby), ho realizzato che forse sarebbe stato il caso di guardare anche qualcosa di più impegnato. Così l'altra sera sono andato a vedere La vita di Adele, riproposta in una rassegna cinematografica per radical-chic: un'intensa storia d'amore tra ragazze, raccontata in modo estremamente sensuoso e godereccio, al limite del hardcore. Oltremodo ravvicinate le inquadrature, praticamente dermatologiche: dopo tre ore di film mi è stato inevitabile odiare la protagonista, Adele, che mangiucchia continuamente a bocca aperta, si insozza di sugo alla bolognese e si sbrodola addosso come neanche Sbrodolina. Poi, indovinate che ordina al suo primo appuntamento? Un kebab, ça va sans dire. Il kebab. Praticamente lo street-food che più di ogni altro compromette la dignità di chi si cimenti nell'impresa di mangiarlo. In quella bocca finisce di tutto, soprattutto i ciuffi ribelli. Mai una volta che si dia una sistemata ai quei capelli sfatti da compito in classe di matematica. Quando poi la sua relazione comincia a sgretolarsi, è tutto un fluire di muco e lacrime. Se avessi voluto vedere tutte queste disgustose secrezioni corporee avrei fatto domanda d'assunzione in un asilo.
Cosa non si fa per amor di realismo!
Quello di Adele è un bildunsgroman scandito da citazioni letterarie, filosofiche e pittoriche: Marivaux e l'innamoramento, Antigone e il senso d'impotenza dell'adolescente, Sartre e la libertà assoluta, il malinconico blu di Picasso, la morbidezza di Courbet e la morbosità di Schiele. Insomma, un film che tratta il pubblico come una classe delle elementari o un eromenos da istruire. Didascalico, se vogliamo, anche per quanto riguarda le dinamiche dell'amore saffico. E' quasi un tutorial erotico, date le scene di sesso interminabili. Talmente lunghe da portarmi ad infrangere quella che è per me una regola sacra: mai parlare al cinema. Non c'è stato verso, per me e le mie amiche, di evitare di scambiarci opinioni e commenti, per poi passare ad una vera e propria telecronaca:
"Ma che stanno facendo esattamente adesso, secondo voi?"
"Credo si stiano strusciando."
"Ah, sì... giusto. Se non sbaglio il termine tecnico è frottage. Una performance superiore alle aspettative, devo ammettere, se consideriamo che è la sua prima volta. La Exarchopoulos è in testa... ma rimonta all'ultimo secondo la Seydoux... ci siamo quasi... ed è GOAL! No, aspettate... cartellino giallo. Ma come, non è goal? Non c'è fallo!"
E sulla scia dei doppi sensi da osteria, imperdonabile la scena in cui Emma Dai-Capelli-Blu insegna alla sua giovane amante come succhiare le ostriche ancora palpitanti di vita.
Se il primo capitolo risultava interessante, esplorando i primi turbamenti di un'Adele liceale, durante la seconda parte sono lentamente scivolato nella noia. Il realismo va bene, ma io avrei tagliato i capelli della protagonista e anche parecchie scene inutili, tipo quando si lava i denti, fa la doccia o il dettato ai bambini a cui insegna. L'arte dell'ellissi... questa sconosciuta!
Il regista, Kechiche, voleva offrirci una tranche de vie, ma era piuttosto un gateau intero, e alquanto indigesto. Un titolo più adatto sarebbe stato Vita, morte e miracoli di Adele.
"Ah, sono passate tre ore? Non me ne sono accorto!" ha avuto l'ardire di esclamare un intellettualoide con la bombetta, uscendo dalla sala, all'una di notte. "Il tempo è volato."
Carissimo Pinocchio, amico dei giorni più lieti, io non avrò i capelli da Fata Turchina di Léa Seydoux, ma le so riconoscere le bugie, soprattutto quando sono grandi come una balena.

"...un artista non deve spiegare un cazzo."
Ma ora passiamo a Jep(petto). Quando si tratta di parlare de La grande bellezza, che non sono stato abbastanza lungimirante da andare a vedere al cinema, il paese sembra dividersi tra agguerriti estimatori e bellicosi detrattori, tant'è che ho quasi paura a metterci bocca e aggiungere la mia inutile opinione da profano. Avverto vibrazioni negative e molte conflittualità, "conflittualità come 'rottura di coglioni'" per citare la performer intervistata da Jep. La grande bellezza non mi ha annoiato (non troppo), non l'ho odiata, ma non mi ha fatto nemmeno trasecolare. Quella proposta è una malinconica passeggiata notturna lungo una galleria di grottesche: l'intellettuale che si vomita addosso le proprie ferree convinzioni, la radical-chic che ascolta solo jazz etiope e non ha il televisore, il cardinale a metà tra soglio pontificio e il contratto per una nuovo programma di cucina su Real Time, la Colonna caduta che sgattaiola nella sua perduta casa-museo per sentir parlare di sé dall'audioguida, il fotografo che fotografa se stesso ogni giorno (che è un po' quello che fanno molti su Facebook), e poi i nani, le ballerine e le tante altre maschere, confuse e misteriose. L'ispirazione felliniana è lampante, a riprova che viviamo in un'epoca neobarocca, fatta di echi e citazioni. Domanda: basta citare la grande cultura per produrne altra?
Tra festaioli di mezz'età che ballano al ritmo della Carrà, si staglia il sorriso sornione di Jep Gambardella (Toni Servillo), che di professione smerda la gente. "Vanità di vanità", "l'imbarazzo dell'essere al mondo", la meschinità umana in contrasto con l'indifferente bellezza che ci circonda: questo scopre Jep nelle sue notti in bianco.
Un film, un rebus da decifrare: il mare, le suore un po' ovunque, gli estranei che sembrano conoscere il protagonista meglio di quanto non si conosca lui stesso, i fenicotteri che sorvolano il Colosseo (che fanno molto promo del concerto di Adriano Celentano all'arena di Verona.)
La mia impressione è che i registi come Sorrentino si sentano sempre più in diritto di comporre scene bellissime, frasi ad effetto e momenti emozionati, per poi consegnare tutto, così com'è, allo spettatore: toh, adesso "unisci i puntini."
La grande bellezza non è un racconto filmico: rimossa la spina dorsale della trama, ciò che resta è una criptica e amara raccolta di poesie per immagini, bella ma riservata a pochi. E io non posso fare a meno di trovare tutto questo crudele.
Perché per Ana Laura Ribas questo film dovrebbe rimanere un mistero?

domenica 2 marzo 2014

Emozioni FORTI di una domenica ESTREMA

Mattino in città di Edward Hopper.
"Stamattina esco e vado a comprarmi il giornale" annuncio una domenica, poggiando la tazzina vuota sul tavolo. I miei sgranano gli occhi come il professor Dorfles, tanta è la sorpresa. "Devo solo trovare le forze per farlo."
Vestirmi di domenica mattina e, soprattutto, uscire, di domenica mattina, mi sono sempre parse attività del tutto innaturali. Un po' come il free-climbing.
E' stato con immenso sforzo che mi sono sfilato la giacca da camera, dopodiché, estenuato, sono rimasto per un po' in contemplazione del pulviscolo atmosferico.
"Non so se ce la faccio..." dichiaro, cinque minuti dopo, con lo stesso tono brioso di Lana del Rey.
"Dai, su" mi incoraggia mia madre, divertita e mai inattiva. Perché, non so se l'avete notato, ma le madri hanno sempre qualcosa da fare. Mai una volta che le becchi senza che abbiano qualcosa in mano, come  i santi e il loro attributo: un paio di jeans da lavare, il manico dell'aspirapolvere, le chiavi della terrazza, la palma del martirio...
 "Su, esci e risplendi!" mi incita, spalancando le imposte. "Guarda che sole stamattina!"
"Già, è proprio una bella giornata per uscire a comprare il giornale" considero, malinconico.
Ma intanto mi trattengo ancora un po' nella stanza. In piedi. Sorreggendomi allo schienale della sedia. Come un gargoyle sorpreso dalla luce del giorno.
Poi, con immensa fatica, prendo a trascinarmi per la casa, senza una meta precisa. Faccio avanti e dietro per il corridoio. Camminando, mi meraviglio di non rilasciare una scia iridescente da lumaca.
Misuro a passi stanchi la stanza. Poi veleggio in salotto e circumnavigo il tavolo per non so quante volte. E' una cosa che faccio sempre: io lo chiamo think-walking. Camminare in tondo e senza un perché mi aiuta a riflettere. Ma se consideriamo il fatto che generalmente prendo possesso delle mie piene facoltà mentali soltanto dopo pranzo, potete intuire che la qualità dei miei pensieri in quel momento della giornata sia assolutamente mortificante. Prima delle dodici i miei neuroni fluttuano come glitter in una boule de neige, cadono dolcemente, si depositano e poi risalgono, in un ciclo di stupidità senza fine.
Devo trovare in fretta un pretesto per vestirmi e uscire subito da questa casa, prima che la pigrizia irretisca la mia volontà e mi afferri le caviglie con le sue tenaglie per poi sbocconcellarmi nel suo antro polveroso.
Sì, mi ripeto che dovrei proprio uscire e andare a comprare il giornale. Magari se ci riesco una volta diventerà una mia abitudine. Un'impresa eroica a cadenza settimanale. Adesso infilo i piedi nelle mie nuove brogues, mi abbottono il montgomery blu, mi getto attorno al collo una sciarpa (uno spruzzo di senape) e via!"
Magari potrei sfoggiare una mise diversa ogni domenica! Col tempo la gente comincerebbe ad accorgersi di questo mio reiterato gesto titanico. Inizierebbe a farsi delle domande. A chiedersi chi possa mai essere questo ragazzo, che ogni domenica mattina esce di casa per comprare il giornale. A domandarsi quale sia il suo fine. O perchè appaia solo di domenica mattina.
Diventerei in poco tempo un personaggio, una di quelle figure ammantate di fascino e mistero. La mia nuova, sana abitudine diverrebbe leggenda: Il Ragazzo della Domenica, che cammina a grandi falcate verso l'edicola, lo sguardo dritto davanti a sè, la sciarpa che svolazza romanticamente alle sue spalle e le punte fiorite delle scarpe che avanzano determinate verso nuove avventure. E intanto la gente si affaccerebbe alle finestre ad aspettarmi, e gli altri passanti si fermerebbero, bisbigliando, sussurrando e magari inziando a cantare come in un musical, non riuscendo più a contenere la curiosità. Tipo Bonjour de La Bella e la Bestia, per darvi un'idea, ma con il maschile al posto del femminile e "Raffy" al posto di "Belle":

"... è un ragazzo assai par-ti-co-la-re,
compra il giornale, che virtù!
Chissà cosa leggerà?
Dove va, neanche lo sa!
Certamente un altro non ce n'è quaggiù
..."

Ma il narcisismo e i sogni di gloria non sono mai stati abbastanza potenti come stimoli. Non carburo ad energia solipsistica. Sono ancora qui che esco tremante dal bagno (regno artico dove non c'è superficie che non sia gelida) e faccio ritorno seminudo alla mia stanza. Mia madre mi sorprende nella stessa posizione di un'ora prima, a scrutare il vuoto, in mutande. "Non ti sei ancora vestito?"
"Mi sono lavato e ho tolto il pigiama. E' un buon inizio."
"E adesso che farai?"
"Aspetto che Hopper mi faccia un ritratto."
Per pietà più che per istinto materno, si offre di aiutarmi a infilare il maglione. 
"Vorrei che ci fosse sempre qualcuno a vestirmi."
"Sì, magari un'ancella" mugugna mia sorella.
Ancora inchiodato nello stesso punto, passo in rassegna tutti gli altri stimoli che potrebbero indurmi a mettere il naso fuori dalla tana. Così penso di ricorrere all'incentivo che uso sempre nei casi più disperati, quando sono costretto ad andare da qualche parte ma non ne ho la benché minima voglia: "Chissà, Raffy" mi dico, "magari oggi è la volta buona che incontri la tua anima gemella, e se questa ridente domenica non uscirai a comprare il giornale non lo scoprirai mai." Nella mia mente sono già lì in edicola, che faccio cadere inavvertitamente una copia di Famiglia Cristiana, e nel raccoglierla la mia mano sfiora quella dell'amore della mia vita.
No, meglio scartarlo questo pensiero. E' il genere di aspettative che mi portano sempre a preoccuparmi dello stato dei miei capelli: "No, Raffy" mi correggo, "esci di casa come se dovessi rimanere zitello per sempre." Mai puntare troppo in alto, di domenica mattina soprattutto.
Così, imprecando contro Sailor Moon e la sua capacità di cambiarsi d'abito e smalto in un battito di ciglia, rimedio finalmente di coprire le mie nudità ed uscire all'aria aperta. Intorno a me, il deserto. Se per le strade c'è qualcuno, "c'è troppa luce." Una luce che sembra dipinta ad olio. Gli unici suoni sono il rintoccare delle campane e il gracchiare delle gazze. Poi avvisto un tizio con degli imbarazzanti pantaloncini da jogging e un cane al guinzaglio, che mi guardano a bocca aperta, come neanche Maria Maddalena difronte al sepolcro spalancato.


Domenica mattina presto di Edward Hopper.

Nella penombra, il giornalaio, un vecchietto in tutto e per tutto identico a quello di Up!, con tanto di fondi di bottiglia agli occhi, mi consegna con mano tremante il quotidiano da me richiesto. A quel punto mi aspettavo che l'edicola si sollevasse per aria, issata da migliaia di palloncini colorati (il che sarebbe stata la fine dei miei buoni propositi domenicali), ma invece è rimasta saldamente ancorata a terra.
Sulla via del ritorno passo dal Palazzo del Principe, un'antica dimora che dopo anni non ho ancora capito se sia disabitata oppure no. Oltre il cancello, sedute sul bordo della fontana prosciugata, due ninfe di pietra abbracciano per il collo dei cigni. Gli occhi ciechi ma estatici fissano eternamente la volta del porticato, dove qualche volenteroso pittore ha affrescato Helios, abbronzatissimo, sul suo cocchio solare, in tutta la sua fiammeggiante gloria. 
Dio, il pensiero di mettere in moto la macchina e bisticciare con la frizione di domenica mattina mi fa già star male, figuriamoci svegliarsi alle cinque, imbrigliare cavalli sputafuoco e scarrozzare un'enorme palla incandescente per ogni angolo del globo senza neanche una sosta in autogrill. Ma come fa la gente a fare tutte queste cose di prima mattina?
Quando torno a casa scopro che mentre ero via mia sorella ha tirato a lucido la casa, ordinato per colore la sua collezione di borse, soggiogato uno stato sudamericano con un sapiente golpe militare e, tra una cosa e l'altra, ha trovato il tempo di tingersi le unghie con un nuovo smalto color malva. Sì, perché mia sorella è una specie di ciclone al contrario: un turbine che, anziché morte e distruzione, lascia dietro di sé ordine, pulizia maniacale e l'eco di rimproveri come: "Nessuno che faccia niente in questa casa!" Roba che se fosse stata Dio avrebbe creato l'universo in metà mattinata e passato i rimanenti sei giorni e mezzo a smontare, spostare e rimontare continuamente catene montuose come fossero mobili dell'Ikea. O a spolverare il Deserto del Sahara.
"Sei già tornato?" mi domanda. "E' stata un'uscita lampo!"
"Ci ho messo un secolo, in realtà. Ho perso tempo perché ho inseguito un gatto per strada. Pensavo fosse Ciccio."
A giudicare dalla sua espressione mi sembra quasi che sperasse di essersi liberata della mia umbratile presenza.
Ecco, quando la tua famiglia non vede l'ora di vederti uscire di casa, è quello il momento preciso in cui diventi un pensionato. Non importa se hai vent'anni.

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