venerdì 15 maggio 2015

"Il Racconto dei Racconti": lo slow-fantasy di Garrone


Anche se non me le ha chieste nessuno, ecco sei buone ragioni per andare a vedere Il Racconto dei Racconti:

1. Perché il fantasy USA è più stecchito di questo drago
Del logoro, viziato fantasy hollywoodiano francamente non ne posso più. Pur di rimodernare una fiaba trita e ritrita ormai si butta nel calderone qualsiasi cosa, dai rimasugli di Tolkien a fluttuanti animaletti fluorescenti di dubbio gusto (vedi Maleficent e le varie Biancaneve.) Guardate questo bel drago marino morto, invece! Mi ricorda un axolotl, quelle adorabili salamandre eternamente giovani (possono rimanere allo stadio larvale per tutta la vita) che in natura hanno benedetto con la loro presenza solo il lago messicano di Xochimilco, che però purtroppo è sempre più inquinato. 
A differenza di tanti suoi dopati fratelli sputafuoco, il mostro albino di Garrone è schivo, nuota in acque torbide ed ha l'aspetto primordiale di una creatura che è sopravvissuta al diluvio universale ma non alla barbarie dell'uomo, come gli ambientalisti temono possa accadere anche al sorridente axolotl. Mi piace pensare che anche il regista abbia preso spunto da questo curioso animale, il cui nome  impronunciabile, tra l'altro, in nahuatl significa "mostro acquatico". Gliel'avrà suggerito Salma Hayek, che è messicana?

No, non è una giovanissima Romina Power smarrita nell'Alta Murgia.

2. Perché dopo lo slow-food, è tempo di slow-fantasy
Garrone ha scelto di battere un sentiero, quello del fantasy, che in pochi italiani hanno avuto il coraggio di seguire. Possa Il Racconto dei Racconti inaugurare la stagione del fantasy mediterraneo, un fantastico che contrapponga ai patinati colossal d'oltreoceano un incanto più autentico, senza troppi fronzoli e riverniciate di modernità. Perché se il fantasy è sempre stato considerato una primizia dei climi freddi o una rampicante che prospera solo sugli schermi verdi di Los Angeles, non c'è motivo per cui non possa crescere tra le nostre rocce lichenose, fiorire nelle nostre assolate colline o all'ombra dei nostri castelli. 




3. Perché non ci sono (solo) i soliti noti
Fatta eccezione per Vincent Cassel, che recita nella parte di se stesso, e l'onnipresente Alba Rohrwacher, la scelta del cast, come c'era d'aspettarsi da Garrone, non è affatto banale: c'è sì l'ardente bellezza di Salma Hayek, perfetta nei suoi abiti regali, che fanno tanto Isabella di Castiglia, ma anche volti grotteschi, che ricordano gli sdentati sorrisi dei contadinotti brugheliani o i caprichos di Goya già citati altrove. 
Quale yankee, poi, avrebbe scelto per il ruolo dei principi, nati dal cuore di un drago, quei due eterei e rachitici ragazzini, quei due Albini Rohrwacher, quando poteva piazzarci due bei figoni dagli addominali lucidi e scolpiti? 
La vera rivelazione, per me, però, è stata la principessa Viola, Bebe Cave, anche lei una bellezza che poteva essere canonica solo nel Seicento, ma che ai miei occhi si è imposta come il volto più memorabile del film, grazie ad un'espressività che riflette meravigliosamente la luce tragica scelta da Garrone per questo non facile riadattamento.




4. Perché ci sono libri migliori di Cinquanta sfumature da cui trarre un film 
Io di Giambattista Basile e del suo Lo cunto de li cunti o Lo trattenemiento de peccerille (anche detto Pentamerone) non avevo mai sentito parlare prima dell'università. Eppure questa raccolta di fiabe 
seicentesche rappresenta una pietra miliare della cultura europea. Include le primissime versioni di Cenerentola, La bella addormentata e Raperonzolo, ed è a quest'opera che hanno guardato con 
ammirazione tutti i fiabisti successivi, dai Grimm ad Andersen. Era ora, dunque, che qualcuno decidesse di riscoprire questo tesoro sepolto, e forse non poteva esserci epoca migliore di quella neo-barocca in cui viviamo per farlo: non siamo forse smarriti in una realtà labirintica che non riusciamo bene a comprendere, come l'uomo barocco? E non è forse vero che i prodotti artistico-culturali più recenti si reggono in piedi solo fintanto che sono sostenuti da più antiche fondamenta, come avveniva per la letteratura barocca, infarcita com'era di citazioni?



5. Perché è una fiaba genuina e sugar-free
Tornando al Pentamerone, Garrone non ha saputo o non ha voluto rendere sulla pellicola la straordinaria verve comica di Basile, ma ha calcato i toni drammatici e si è soffermato con gusto barocco sugli aspetti più spaventosi e macabri della narrazione popolare. Allo stesso modo ha rinunciato a riprodurre la pirotecnica, originalissima ricchezza linguistica del napoletano, preferendo dialoghi rarefatti e una sceneggiatura brulla come le solitudini che circondano Castel del Monte.
Ciononostante, non si può non riconoscere al regista il merito di aver tenuto fede alla primordiale brutalità, alla violenza e all'irrazionalità della fiaba, che torna alla sua purezza archetipica, senza zuccheri aggiunti. Pur cambiandone significativamente i finali, nonché i nomi di alcuni dei protagonisti (d'altronde "principessa Viola" suona meglio di "principessa Porziella" e "Elias e Jonah" sono più international di "Fonzo e Candeloro"), Garrone riesce a non stravolgere troppo le tre storie selezionate (La cerva fatata, La pulce e La vecchia scorticata), che rappresentano un trittico tutto al femminile: la Fanciulla e il suo traumatico risveglio dall'infanzia all'età adulta, la Madre che deve imparare a distinguere l'amore dal possesso, e infine la Vecchia alle prese con la più amara delle lezioni, ovvero che il corso dell'esistenza non può essere cambiato.



6. Perché un sequel avrebbe senso
Le fiabe del Pentamerone sono ben cinquanta, perciò è giustificabile che Garrone abbia fatto cenno alla possibilità di girare un secondo episodio, o magari una serie. Forse, dunque, la storia continua...

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