mercoledì 17 dicembre 2014

Premio Giovanna 2014: il Galà delle Pubblicità Insopportabili (le nomination)

La "brava" cameriera Giovanna apre, come di consueto, i cancelli di Villa Saratoga, che ospita per il terzo anno di seguito il temutissimo Galà delle Pubblicità Insopportabili. 
Un anno, il 2014, iniziato sottotono per noi cultori del pattume pubblicitario, noi piccoli procioni avidi di spazzatura televisiva, eppure in breve tempo ha riguadagnato terreno regalandoci perle di raro cattivo gusto! Ma passiamo subito alla competizione e presentiamo le nuove cinque, intollerabili categorie...

1. Compagno di Viaggio Più Insopportabile
Guarda la playlist delle 3 nomination:



Pare che il test più efficace per capire davvero di che pasta è fatto qualcuno sia viaggiarci insieme. Cosa ne pensate allora dei viaggiatori qui proposti? A quali di questi infilereste un corno di rinoceronte nel bagaglio a mano pur di bloccarlo in aeroporto?
La coppietta di cretini per Ford Fiesta, per esempio, sprezzanti del pericolo, guidano a tutta velocità lungo la litoranea tutta curve della mia dissestata pazienza. Non poche, però, sono anche le turbolenze che provoca la bambina saccente di Lufthansa, sempre pronta a snocciolare a chiunque vaghe quanto non richieste nozioni di fisica (in realtà si limita a ricondurre vari fenomeni all'ambito di studio della fisica, come se un paio di occhiali da hipster bastasse a farla sembrare una bambina prodigio.) Simpatico quanto la pubblicità ingannevole di un resort a cinque stelle che si rivela essere un tugurio infestato dalle blatte è, ultimo ma non ultimo, Mecla, il rapper estivo di Cono 5 Stelle Sammontana (rileggi l'articolo), un compagno di villeggiatura che sa come mordere la vita, ma anche il vostro sedere (un'esperienza che non a tutti risulta gradita.)

2. Peggior Esaltato
Guarda la playlist delle 4 nomination:


Mai come quest'anno la tv ha risuonato di strilla e gridolini eccitati di fanatici e invasati. A quale di questi un po' troppo entusiasti personaggi spruzzereste dello spray al pepe negli occhi se doveste incontrarli in un vicolo buio? Vi spaventa di più l'esaltazione della speaker teinomane di Tg Rocchetta (rileggi l'articolo), il tentato golpe militare di Simona Ventura per Pittarosso (rileggi l'articolo), o magari la shopaholic di HSE24, che urla a squarciagola come un'oca in una fabbrica di Moncler? Oppure a turbarvi più di chiunque altro è il solito, apocalittico, sensazionalistico trailer animalier di Adriano Celentano? L'unico che spacca i timpani più del concerto stesso?

3. Componimento più Insopportabile
Guarda la playlist delle 4 nomination:


Il Premio Giovanna è oggi anche agone di poesia:
Tra tanti carmi il peggior direte voi quale sia.

L'invito rap di Sammontana ad azzannar la chiappa nuda,
o l'Ode, per Mutti mutilata, del buon Pablo Neruda?

I tamburi di Simona, che non son proprio delle dolci arpe,
le scatole vi han rotto (e mica dico quelle delle scarpe)?

Oppure vi è molesta, più della marcia di Pittarosso,
la serenata alla patata Amica che ben pochi ha commosso?

Di quale verso, rima, strofa o stanza,
Orsù dite, ne avete avuto già abbastanza?

Di giudicar vi chiedo, senza alcuna ritrosia:
Tra tanti carmi il peggior direte voi quale sia.

4. Peggior Salutista
Guarda la playlist delle 2 nomination:



Il 2014 ha visto molte star internazionali impegnate con ogni sforzo sul fronte della stitichezza e della ritenzione idrica. Quale di questi spot ha stimolato maggiormente il vostro dissenso, o magari anche un po' di dissenteria? Il balletto del retto di Shakira per Activia, oppure i consigli di bellezza di Laura Chiatti per Rocchetta (rileggi l'articolo), secondo la quale una sana minzione è il segreto per la seduzione?

5. Peggior Latin-Lover
Guarda la playlist delle 5 nomination:



Sì sa, da un po' di tempo a questa parte tira più un pelo di barba che un carro di buoi, soprattutto nel settore pubblicitario. Più o meno stagionati, sono tanti i farfalloni che svolazzano in tv per strappare qualche sospiro ad ingenue casalinghe. A quali di questi dareste un due di picche? Pensate che lo sfigato di Amica Chips (rileggi l'articolo), che canta "Ci vorrebbe un'amica", potrebbe trovarne una solo alla fine del suo braccio? Resistereste al penetrante... sguardo di Rocco Siffredi? O ci sarebbe Più Gusto a rifiutare quel borioso di Carlo Cracco per San Carlo? Accettereste un passaggio in monopattino da Owen Wilson - la parrucca biondo paglierino al vento? Oppure pensate che Kevin Costner, con quel ciuffetto spelacchiato e la sciarpa à la Albano, non sia più so good? (Rileggi l'articolo)

6. Pubblicità più Insopportabile
Tutte le sopraccitate
La pubblicità più insopportabile di tutte, lo spot capace di farvi cambiare opinione sui radical-chic che dichiarano di non avere la televisione in casa, il battage pubblicitario che più vi abbatte...

Allo scoccare della mezzanotte del 7 gennaio il televoto sarà ufficialmente chiuso. Fino ad allora, votate numerosi! Vi basta commentare qui sotto riportando la lista dei vostri candidati. Al peggio non c'è mai fine!

martedì 18 novembre 2014

Pubblicità insopportabili #37 - La fiera del doppio senso

Non è la prima volta che un uomo si esibisca in improbabili dichiarazioni d'amore in tv, ma è sempre più raro che tali amorosi accenti si rivolgano ad una persona in carne ed ossa. Qualche tempo fa un tizio identico a Shaggy di Scooby-Doo saltellava per le spiagge caraibiche, coperto solo da un asciugamano, cantando a gran voce il suo amore per Kayak, il popolare sito di viaggi. Ora è il turno di un nuovo disadattato che, evidentemente deluso dall'esperienza con l'altro sesso, si è risolto a comprare un sacchetto d'amore.
Come interpretare questa serenata? E' forse una metafora della mercificazione del corpo femminile? E' il paradigma dell'uomo medio italiano, che sogna accanto a sé una compagna muta, dorata e croccante? Che preferisce una patatina salata a una donna con un po' di sale in zucca?
Ma forse questo filmino dell'incredibile viaggio di nozze tra un uomo dalla calvizie incipiente e un pacco di Amica Chips non è altro che una paradossale allegoria dell'amore. D'altronde cosa rappresenta meglio questo sentimento di un sacchetto che per metà è pieno d'aria e per l'altra metà contiene un alimento salato che crea dipendenza?

 
Se la patata è oggetto di bruciante devozione, la vita, per le banane, si fa invece sempre più dura. Le aspettative sono enormi, e chi non riesce a soddisfarle è condannato alla solitudine e a un irrimediabile senso di inadeguatezza. Basta dare un'occhiata agli ultimi spot di Chiquita per inorridire di fronte alla ferocia con cui una banana può essere rifiutata.
 

Diciamo "no" alla discriminazione delle banane. Che siano grandi, piccole, ammaccate, acerbe, mature, dure, molli, ricurve, dritte, sbucciate, reali o allusive.
Spero vivamente che questa schifiltosa Carmen Miranda di secondo lavoro non faccia la psicologa scolastica o l'infermiera al consultorio.
 
Lo slogan "cento e lode" associato a tali episodi di discriminazione è pericolosamente
ambiguo: fa passare l'idea che
occorra puntare unicamente sulle proprie qualità fisiche
 per conseguire successi scolastici.

giovedì 30 ottobre 2014

La Biblioteca Classica di Raffy: Chi ha paura di Jane Austen?

Per una ragazza della Reggenza, come Jane Austen, le nozze erano questione di vita o di morte. Rimanere zitelle non era solo una grossa delusione o motivo di imbarazzo nelle riunioni di famiglia, ma era anche una catastrofe economica: un marito era l'unico che potesse salvare una donna dal passare la vita ad elemosinare un tozzo di pane al fratello maggiore (unico erede legale) o a trascinarsi col sedere a terra. Tutto questo spiega perché i romanzi di Jane ruotino quasi esclusivamente intorno ad una torta nuziale. Per le lettrici dell'epoca, insomma, erano dei veri e propri thriller. Altro che Harmony e Il diario di Bridget Jones. Alla fine, quando la protagonista riusciva finalmente a impalmare un ricco baronetto, si provava lo stesso sollievo di quando uno dei personaggi di Final Destination riesce per un soffio a scampare alle grinfie della Morte.
Non che nelle biblioteche dell'epoca mancassero altri libri da brividi: il romanzo gotico era talmente popolare che una giovanissima Jane Austen decise di scriverne una parodia. Il risultato è Northanger Abbey, uno dei suoi romanzi più divertenti e divertiti. Che si tratti di una parodia è già evidente dalla descrizione dell'eroina di questa storia, Catherine Morland, che ha poco a che vedere con le svenevoli, pallide fanciulle che nei romanzi gotici si ritrovano quasi sempre invischiate in una spirale senza fine di misteri, crimini ed orrori. La vita di Catherine non potrebbe essere più noiosa, priva di spaventi e a prova di cardiopatico: suo padre non ha mai pensato di chiuderla a chiave in una stanza, per esempio, e sua madre non è morta di parto come le delicate genitrici delle eroine gotiche. Niente corse a perdifiato giù per scalinate a chiocciola, forzieri chiusi a chiave, apparizioni spettrali o passaggi segreti nascosti dietro la libreria.
Per questo Catherine decide di lasciare la sua banalissima vita di campagna e partire con degli amici di famiglia alla volta di Bath, che più che una città, all'epoca era un grande villaggio vacanze dove, se non un marito, almeno un giro di valzer con un animatore lo rimediavi di sicuro. Subito Catherine si ritrova ad affrontare una prima, agghiacciante prova di sopravvivenza: un affollatissimo ballo con la sua accompagnatrice - la vanitosa signora Allen, a cui interessa solo non sgualcirsi il vestito -, senza conoscere nessuno, senza che nessuno la inviti a ballare, seduta all'estremità di un tavolo già occupato da una numerosa comitiva che non ha la minima intenzione di rivolgerle la parola o di offrirle anche solo una sbeccata tazzina del tè più annacquato. Sembra quasi di sentirlo, l'imbarazzo della nostra eroina, quella sensazione di "essere in disgrazia agli occhi del mondo" descritta con effervescente, irresistibile ironia.
Ma Catherine non sarà sola a lungo. Presto incontra il giovane Tilney, che "se non è proprio bello, ci va molto vicino" e che la conquista col suo spirito e la sua pacatezza. Anzi, col tempo Catherine penserà di aver conosciuto anche troppa gente, tipo la sua amica Isabella, regina dei passatempi vacanzieri (lo shopping, i pettegolezzi sui flirt estivi e l'individuazione dei tipi strambi da deridere), e suo fratello, la peggior razza di maschio, quello che è innamorato della propria voce, che non sa parlare altro che della propria carrozza e di quanto sia veloce il proprio cavallo, e il cui unico interesse è stimare il prezzo delle cose, il conto in banca della gente e la distanza da un posto all'altro (una noia abissale.) Eppure, non so come, ma Jane Austen riesce a tenermi incollato alle pagine anche se i personaggi stanno discutendo della qualità della mussola indiana o dibattendo su quale dei due sessi sia più versato nello stile epistolare.

Una cartolina vintage a tema Halloween.
I giorni trascorrono monotoni a Bath, e Catherine e la sua amica Isabella passano tutto il tempo a leggere romanzi gotici come I misteri di Udolpho di Ann Radcliffe (ne ho scritto una breve parodia qui.) Il signor Tilney, per cui nel frattempo la protagonista si è già presa una sbandata che non vi dico, è sparito dalla circolazione. Non si fa vedere alle terme, nè a bordo piscina, nè al torneo di calcio balilla. Catherine dà per certo che sia stato vampirizzato, o rapito dagli alieni o segregato nella sala delle torture di una sadica nobildonna, e, per distrarsi, si immerge nella lettura dell'equivalente ottocentesco della collana Piccoli Brividi, in attesa che il suo amore riappaia (anche in forma ectoplasmatica.)
Ciò che rende Catherine così simpatica è il suo essere "quasi carina", non particolarmente brillante, ignorantella e, in più, sfigatissima. Per una cosa che le va bene, altre dieci le vanno a rotoli. Le sue disavventure le abbiamo provate tutti, o almeno io le ho provate: passare giorni senza aver un bel niente da fare e poi essere contesi, da un lato, dai tuoi amici e, dall'altro dall'oggetto del tuo interesse amoroso, che pretendono entrambi di vederti lo stesso giorno e alla stessa ora. La tragedia degli appuntamenti mancati, dei rifiuti sofferti, del "se l'avessi saputo prima non avrei preso altri impegni", senza contare la tortura inflitta dalla solita coppietta di piccioncini che pretende di averti con loro per tutto il tempo come spettatore della loro beatitudine, mentre tu vorresti essere altrove, magari a cercare qualcuno con cui tubare a tua volta anziché brillare della loro luce riflessa.
Finalmente, però, rispunta fuori il signor Tilney, più affascinante che mai, e Catherine, zitta zitta, riesce a rimediare, da quella che spera diventi presto sua cognata, un invito a trascorrere un po' di tempo nella tenuta di famiglia, Northanger Abbey. Solo a sentirne pronunciare il nome - Northanger Abbey - la testolina impressionabile di Catherine se la figura già come un rudere medievale, lugubre e misterioso, teatro di efferati delitti e indicibili segreti. E Tilney, quella vecchia volpe, si diverte ad eccitare la sua suggestionabile fantasia, forse conscio del fatto che non c'è miglior scusa della paura per far cadere una fanciulla tra le proprie braccia.
Quando arriva nel luogo tanto vagheggiato, però, la nostra eroina rimane delusa dalla "modernità" di Northanger. In un certo senso è una hipster ante litteram, un'oltranzista del vintage: schifa qualunque mobile o oggetto sia posteriore al quindicesimo secolo. E a giudicare dai suoi discorsi con Tilney su ciò che è pittoresco e su come rappresentare al meglio un paesaggio, non è da escludere che, se avesse potuto, sarebbe stata dipendente dai filtri di Instagram.
Insomma, Catherine Morland è una di noi. Mi è difficile non riconoscermi in lei, soprattutto per quel che riguarda la sua incapacità, tutta donchisciottesca, di distinguere tra realtà e immaginazione. Detto tra noi, il sottoscritto è stato capace di telefonare la sua migliore amica per questo genere di turbamenti:
"Pronto, Anny? Ti disturbo? Sono nel salotto di casa mia, dovrei andare in bagno a fare pipì ma... ho paura."
"Di cosa, Raffy?"
"Di Satana..."
"..."
"E' che sto traducendo dei passi del Paradiso perduto per l'esame di letteratura... Lo sapevo che dovevo farlo di mattina! Di sera mi suggestiono troppo!"
"Raffy! Pensa a qualcos'altro... chessò, al film di ieri con Michael Fassbender?"
"No, Anny, è ancora peggio: ho sempre pensato che Michael Fassbender sarebbe perfetto per interpretare Satana in un'eventuale trasposizione cinematografica del Paradiso perduto. O lui o Bradley Cooper. Anzi no: Sam Worthington. Ce lo vedo proprio, con quegli occhi rivolti al cielo, mentre si solleva in volo da un lago di fuoco..."
"Okay..."
"Tra l'altro c'è un quadro di Franz von Stuck che raffigura l'angelo caduto e gli somiglia da morire!"
"..."
Ma ci sono stati anche casi peggiori, tipo quando ho telefonato ad Anny perché avevo paura della Maddalena Lignea di Donatello, del ritratto del principe de La Bella e la Bestia o dell'evoluzione della specie. Sì, avevo appena finito di sfogliare col mio cuginetto un libro sui dinosauri e, tornando a casa, di sera, completamente solo, sobbalzavano ad ogni rombo di motocicletta pensando che fosse un velociraptor. Sono il tipo di persona che si spaventa persino del trailer di Scary Movie.
Fortunatamente per Catherine, i più oscuri misteri che dovrà indagare a Northanger, tra ipocrisie e atteggiamenti ambigui, non sono che le contraddizioni dell'essere umano.

Illustrazione di Doogie Horner per la copertina di Orgoglio, Pregiudizio e Zombie di Seth Grahame-Smith

mercoledì 1 ottobre 2014

Pubblicità insopportabili #36 - Un Neruda per tutte le occasioni

Pablo Neruda: uno dei poeti più... l'unico poeta che molta gente conosca, nonché una vacca che i pubblicitari continuano a mungere ininterrottamente. I discendenti avrebbero diritto ad una fornitura a vita di Baci Perugina. In più, non passa giorno che un vostro amico di Facebook (uno di quelli che evitate con cura di salutare per strada) vi riempi la bacheca con un suo componimento, magari corredato da un'immagine di Titti, Diddle, un neonato con la faccia buffa o una rosa luccicante di gocce di rugiada. La cosa più triste è che molti, di Neruda, conoscono solo la poesia che in realtà non ha mai scritto. "Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine... etc." sono parole di Martha Medeiros, una giornalista e scrittrice brasiliana, ma hanno continuato a circolare per anni incrostando la reputazione del poeta, che di sicuro scriveva dediche più belle sui diari di scuola dei suoi compagnucci delle elementari.
Da qualche giorno anche la Mutti ha deciso di spolpare l'opera del Premio Nobel cileno:


La mia prima reazione è stata: "ma 'sta roba l'ha scritta davvero Neruda?" Poi, dopo le dovute ricerche, mi sono reso conto che i pubblicitari, con la stessa disinvoltura con cui hanno ignorato il suo impegno politico trasformandolo nel poeta più commerciale di sempre, hanno anche ristretto un componimento di gran lunga più sugoso di quello da loro proposto in formato tubetto di concentrato:


 La strada
si riempì di pomodori
mezzogiorno,
estate,
la luce
si divide
in due
metà
di pomodoro,
scorre
per le strade
il succo.
A dicembre
il pomodoro
si scatena,
invade
le cucine,
irrompe nei pranzi,
si siede
riposato
sulle credenze,
tra i bicchieri,
i portaburro,
le saliere blu.
Emana
luce propria,
maestà benigna.
Dobbiamo, purtroppo,
assassinarlo:
si affonda
il coltello
nella sua polpa vivente,
è una rossa
viscera,
un sole
fresco,
profondo,
inesauribile,
riempie le insalate
del Cile,
si sposa felicemente
con la chiara cipolla,
e per festeggiare l'unione
si lascia
cadere
olio,
figlio
essenziale dell'ulivo,
sui suoi emisferi socchiusi,
aggiunge
il pepe
la sua fragranza,
il sale il suo magnetismo:
sono le nozze
del giorno,
il prezzemolo
sventola
le sue bandierine,
le patate
bollono vigorosamente,
l'arrosto
bussa
col suo aroma
alla porta,
è ora!
Andiamo!
E sulla tavola,
nel mezzo
dell'estate,
il pomodoro,
astro di terra,
stella
ricorrente
e feconda,
Ci mostra
le sue circonvoluzioni,
i suoi canali,
l'insigne pienezza
e l'abbondanza
senza ossa,
senza corazza,
senza squame né spine,
ci offre
il dono
del suo colore infuocato
e la totalità della sua freschezza.

Illustrazione di Ryo Takemasa.

lunedì 15 settembre 2014

Sulle orme del gigante

"...Come away, oh human child!/ To the waters and the wild/ With a fairy, hand in hand./
For the world's more full of weeping/ Than you can understand." (The Stolen Child, W.B.Yeats)
"...Vieni via, o bambino umano!/ Verso le acque e le lande selvagge / Mano nella mano con una fata. / Perché al mondo ci sono molte più lacrime / Di quanto tu possa mai comprendere." (Il bambino rapito, W.B. Yeats)
Dopo aver ammirato l'umile bellezza di Dublino, il richiamo delle "acque" e delle "lande selvagge" è diventato troppo forte per essere ignorato.
Prima mi conduce nel vicino porto di Howth, paesino di pescatori  flagellato dal vento salmastro, dove le lucide testoline color piombo delle foche affiorano di tanto in tanto dall'acqua e scivolano via in un attimo verso il faro.
Poi mi persuade ad avventurarmi sulle ventose Wicklow Mountains, con le loro gelide brughiere assediate dalla bruma. Là dove osano solo le pecore, e domina ovunque il viola dell'erica e il giallo dell'erba di S.Giacomo. Da lì mi addentro per i pendii boscosi della valle di Glendalough, tra querce, betulle e noccioli secolari, drappeggiati di scialli di muschio, e cespugli di more e mirtilli selvatici avvolti da una nebbiolina argentata. Suggestionabile come sono, il gorgogliare dei ruscelli e il fruscio delle foglie mi spingono più di una volta a girarmi di scatto, credendo di trovare gli occhietti di un folletto o di una fata a spiarmi tra i rovi. La nostra guida, d'altronde, una donna di mezza età di nome Tallula, prima di scendere dal pullman mi ha messo addosso una certa ansia: "Il percorso è accidentato e lungo, perciò fate attenzione a non perdervi. Venite con me, state con me, tornate con me. Finché resteremo insieme non vi accadrà nulla di male. Non staccatevi dal gruppo. Venite con me, state con me, tornate con me. Se doveste smarrirvi saremmo costretti a lasciarvi qui. Sono certa che non vorrete trascorrere la notte da soli nella più completa oscurità. Perciò, venite con me, state con me, tornate con me." La donna, in realtà, parla con un forte accento del Sud di Dublino, il che la porta a sostituire ogni "t" col suono "sh", perciò sarebbe più corretto riportare in questo modo il suo ansiogeno mantra: "Venishe con me, stashe con me, shornashe con me." Forse teme davvero che chi dovesse rimanere in coda al gruppo possa essere fatalmente attratto dalle voci insidiose della foresta.
Oltre le acque grigie dei laghi, svetta quella che sembrerebbe la torre di Raperonzolo, ma in realtà è il campanile rotondo del monastero di San Kevin, dove i fuchsia oscillano come campanelle tra le lapidi sbilenche e coperte di licheni. Una ragazza dell'Est-Europa, con una dentatura cavallina, abbraccia appassionatamente una croce celtica. Tallula ci assicura che non lo fa per dar sfogo alla sua ardente devozione: secondo la tradizione, se si riesce a toccarsi le punte delle dita abbracciando una croce ci si sposerà entro l'anno. Infatti un bel ragazzo alto e biondo la guarda con un'espressione infinitamente dolce. Non mi capitava di vedere una scena ambientata in un camposanto che fosse così romantica dai tempi de La famiglia Addams.


Il cimitero e la Round Tower del monastero di San Kevin a Glendalough.
 
Le brughiere del Sally Gap, nelle Wicklow Mountains. Sì, so che non si vede
nulla, ma non è affascinante proprio per questo? Sembra che da quella nebbia possa
emergere di tutto... una banshee o magari un pùca! La prima è uno spirito
femminile che, se appare ad un irlandese, preannuncia col suo grido agghiacciante
l'imminente morte di un familiare. Ognuna di loro serve un solo clan (quelli
più nobili, con i cognomi che iniziano per "Mac" o "O'"), mentre un coro di
banshee presagisce la morte di un personaggio importante, come un re o un santo.
A differenza degli allegri  e servizievoli Lepricauni di verde vestiti, i pùca sono
folletti spaventosi e mutevoli, tanto per l'aspetto che per l'attitudine: possono
apparire nelle sembianze di un caprone o di un cavallo nero, e, per quanto alle volte
 possano rivelarsi benigni, sono per lo più dispettosi, se non proprio malvagi.
In genere si mostrano agli umani nel mese di novembre, divertendosi a terrorizzare
i viandanti.

Il rientro a Dublino è solo una breve sosta prima della levataccia per la prossima, remota destinazione: il Selciato del Gigante (Giant's Causeway), nell'Ulster. Colui che ci guiderà in questa seconda avventura, un uomo che chiameremo convenzionalmente Seamus (dato che non ho capito il nome), parla una lingua che inizialmente ho riconosciuto come gaelico. In realtà è semplicemente inglese, ma non mi riesce di capire alcunché di quello che dice, forse per l'incomprensibile accento nord-irlandese, o magari per via di quella sua voce bassa e sexy - neanche stesse sussurrando sconcezze all'orecchio della fidanzata - che fa di lui un possibile, promettente acquisto per l'industria della cinematografia erotica ma un pessimo cicerone.
Lo spettacolo che scorre al di là del finestrino, però, parla da solo. Da un lato del finestrino, la verdeggiante Causeway Coast si getta sul mare argenteo, tra le cui onde, vicino alla riva ciottolosa, mi sembra di distinguere un volto umano: una visione, durata nemmeno un secondo, che l'angolo medioevale della mia mente registra subito, ovviamente, come l'avvistamento di una sirena.
Dall' altro lato, invece, si inseguono colline e prati verde brillante, dove sgambettano frotte di pecorelle fresche di tosatura. E innumerevoli agnellini. Dolcissimi agnellini ovunque: belli come appena usciti dalle illustrazioni naif di un libro di catechismo.

Le sirene delle isole britanniche. Le selkie, originarie dei mari scozzesi, ma presenti anche nelle 
leggende irlandesi, islandesi e faroesi, finché restano in acqua hanno l'aspetto di comuni foche,
ma possono liberarsi della pelle e approdare a riva nelle sembianze di bellissime fanciulle. Se un
uomo riesce a rubargliela, però, la selkie sarà costretta a vivere sulla terra e sposarlo.
La sirena, tuttavia, continuerà a guardare con nostalgia l'oceano e, qualora un giorno dovesse ritrovare
la sua pelle di foca, vi farà immediatamente ritorno, abbandonando senza alcuno scrupolo marito
e figli. Similmente, se si ruba il cappello rosso di una sirena irlandese, detta merrow, potrà vivere
sulla terra e camminare su due gambe umane. Le merrow, però, data la proverbiale bruttezza
dei maschi merrow, sono decisamente più inclini delle loro cugine selkie a flirtare con gli
avvenenti pescatori, sebbene le loro avventure abbiano spesso esiti tragici, come racconta
W.B. Yeats: “A mermaid found a swimming lad,/Picked him up for her own,/Pressed her
body to his body,/Laughed; and plunging down/Forgot in cruel happiness/That even lovers drown.”
(Una sirena trovò un ragazzo che nuotava,/Lo prese con sé,/Strinse il suo corpo al suo corpo,/
Rise, e tuffandosi giù negli abissi,/Presa da crudele felicità, dimenticò/Che anche gli amanti
possono annegare.")
Mentre la pioggerellina cede il posto al sole, anche la parlata di Seamus sembra rischiararsi, per quanto solo a sprazzi. Ci indica al microfono un'altura che scompare subito dopo dietro una curva: si dice che se un albero cresce solitario al centro di un campo è perché abitato dalle fate, dunque non va abbattuto per nessun motivo, sempre che non si voglia subire la loro terribile vendetta.
Poco più in là si delinea il profilo di Cavehill, la collina dal volto umano che ispirò a Jonathan Swift le peripezie di Gulliver, prima imprigionato dai Lillipuziani, poi sballottolato dai giganti di Brobdingnag, quindi issato sull'isola fluttuante di Laputa e infine approdato sull'isola degli Houyhnhnms, cavalli parlanti dotati di straordinaria intelligenza e saggezza, al contrario dei selvaggi e incolti Yahoo, che di umano hanno solo l'aspetto. Ho sempre trovato estremamente inquietante il finale dei satirici viaggi di Gulliver: tornato a casa, può finalmente riabbracciare moglie e figli, ma scopre di non riuscire più a sopportare il loro odore, che gli ricorda terribilmente quello degli yahoo, tanto da scegliere di dormire nella stalla.
Intanto, mentre proseguiamo verso nord, rifletto sulla curiosa toponomastica irlandese, che, attingendo più volentieri al gaelico che all'inglese, suona sempre alquanto esotica. Nel corso del viaggio mi sono appuntato i nomi più simpatici. Per il momento, i miei preferiti sono Lisnagunogue, Drumcondra, Carrigaline e Annamoe. Potrebbero benissimo essere terre fantastiche come quelle visitate da Gulliver, magari confinanti con Brobdingnag.
A proposito di nomi strani e mirabolanti avventure, la prima sosta è il Carrick-a-rede, il vertiginoso ponte di corda sospeso sul mare. Una volta portato a termine il traballante attraversamento, la pelliccia erbosa dell'isolotto, pettinata dal vento, è così morbida che sembra di camminare sul dorso di un enorme essere vivente: viene quasi da fargli un grattino.



La vista dal Carrick-a-rede.
 Poco dopo si arriva finalmente alla tappa che attendevo con più trepidazione: il Selciato del Gigante, bizzarra architettura naturale composta da colonne di basalto dalla forma perfettamente geometrica, per lo più esagonale. Questo luogo così singolare è associato a Finn McCool (o meglio, Fionn mac Cumhall), leggendario guerriero e veggente, che, come molti personaggi della mitologia celtica, ha subito nel corso della storia un curioso ridimensionamento: con l'avvento del Cristianesimo, gli antichi dèi pagani si sono rimpiccioliti nell'immaginario collettivo fino a trasformarsi in fate e folletti, mentre gli eroi hanno acquisito proporzioni gigantesche. Così sarebbe stato Finn McCool, forte della sua imponente stazza, a costruire il Selciato del Gigante per raggiungere a piedi la Scozia e affrontare il suo altrettanto gigantesco rivale, Benandonner. Visto da vicino, però, il gigante scozzese risultò molto più grande di quanto Finn avesse previsto, così, dietro suggerimento di sua moglie, si travestì da infante. Una volta raggiunta la costa irlandese, di fronte alle proporzioni del "bambino", Benandonner non ebbe alcuna voglia di incontrarne il padre e se ne tornò in fretta in Scozia.
Malgrado questo inganno, a Finn non mancò l'esperienza della paternità: suo figlio Oisin (o Ossian), guerriero e poeta, è il protagonista di una struggente leggenda che mi è stata raccontata con grande pathos dalla saltellante cantastorie del Museo dei Lepricani di Dublino. Partorito quando sua madre, vittima dell'incantesimo di uno stregone malvagio, era ancora una cerva, Oisin ("cerbiatto") si unì alla Fianna, gruppo di valorosi guerrieri capeggiato da suo padre Finn. Una notte, mentre il ragazzo si allenava nel bosco, incontrò una bellissima dama a cavallo, la fata Niamh dai Capelli d'Oro, che, innamoratasi di lui, lo portò con sé nel regno di cui era principessa, Tir na n-Og ("La Terra della Giovinezza"), i cui abitanti non conoscono né la vecchiaia né la morte. I due amanti vissero insieme felici, ma dopo tre anni Oisin cominciò a sentire la mancanza di suo padre e chiese a Niamh di potergli fare visita, anche solo per poco tempo. La fata, sebbene preoccupata, accettò di prestargli il suo cavallo, Embarr, capace di galoppare a gran velocità senza toccare terra, ma lo avvertì di non smontare mai dal destriero, o un'orribile sciagura sarebbe caduta su di lui. Oisin, dopo averle assicurato che sarebbe stato attento e che avrebbe fatto presto ritorno a Tir na n-Og, salì in groppa al cavallo fatato e tornò in un lampo nel luogo esatto da cui era partito, che però gli apparve molto cambiato. Raggiunto un villaggio, chiese di suo padre Finn e dei guerrieri della Fianna, ma nessuno seppe dirgli nulla. Solo un vecchio ricordava di aver sentito parlare di Finn McCool da suo padre, che a sua volta aveva udito delle sue eroiche imprese da suo nonno. Oisin apprese così che per ogni anno trascorso a Tir na n-Og, in Irlanda ne erano passati cento, e dunque tutti i suoi cari erano morti ormai da tempo. Terribilmente afflitto, si volse indietro, ma durante il tragitto si fermò ad aiutare un uomo che, per quanto si sforzasse, non riusciva a issare una pietra su un carro. Questo atto di altruismo, però, gli costò caro: mentre cercava di sollevare il masso le redini si spezzarono e Oisin cadde da cavallo. Nel momento stesso in cui il suo corpo toccò terra, tutti i trecento anni trascorsi piombarono su di lui, facendone un vecchio ormai in fin di vita. Riuscì a sopravvivere appena in tempo per essere battezzato da San Patrizio, poi esalò l'ultimo respiro. Niamh, non vedendolo arrivare, si mise alla sua ricerca, ma quando lo trovò era ormai troppo tardi.

Le rocce "a nido dape" del Selciato del Gigante.


Smarrito nelle mie fantasie, mentre saltello malfermo sulle rocce del Selciato, perdo anch'io la cognizione del tempo e ritorno al pullman con sensibile ritardo. Il risultato è un'incomprensibile lavata di capo da Seamus. Gli irlandesi, così come gli inglesi d'altronde, hanno un modo davvero grazioso di perdere le staffe. Non si sognano nemmeno di urlare: la voce si riduce a un falsetto, mentre il viso raggiunge una tonalità color pulce. Poi, in genere, riprendono il sorriso in breve tempo, con la facilità con cui il sole si affaccia tra gli intervalli di pioggia.
Sulle note acute di questa ramanzina si conclude la mia visita dell'Isola di Smeraldo. Sperando in cuor mio che i sette giorni trascorsi in Irlanda equivalgano a settecento anni in Italia e che quindi la mia facoltà sia ormai ridotta ad un cumulo di rovine, mi abbandono sullo schienale, cercando a fatica di ignorare la famiglia allargata che occupa metà dell'aereo. E dico "allargata" non solo per il numero - a mio giudizio, eccessivo - dei suoi membri, ma anche per la loro tendenza ad allargarsi troppo in termini di buona educazione. "Che caldo che fa qua! Ma perché non accendono l'aria condizionata? Che aspettiamo a partire? Chiedi a quella! Quant'è brutta! Mai hai visto che brutta l'hostess?! Sembra quella là... quella della famiglia Addams... Mortimer? Ah, sì, Morticia! Ma tu l'hai visto quel video? Quel video dell'aereo? Quello in cui non si apre bene il carrello e il pilota fa un atterraggio assurdo? Che ha detto? Ah, è tutto a posto? Cos'è che ha detto? Io non sento nessun odore strano! Ah, dice che è normale? C'era un problema al condizionatore allora... ecco perché non partiamo! E' tutto okay quindi? Sicuri? Signorina, partiamo? Sì, stiamo decollando, non lo senti il motore? Madonna, guarda che spettacolo le nuvole! Cos'è che dice quello all'altoparlante? Oh, ma qua stiamo andando in Italia, parlate italiano!! Se atterra bene però glielo faccio l'applauso. Magari lo facessero a me un applauso, quando finisco di lavorare...!" e così via. Un interminabile flusso di coscienza joyciano per tutte la durata del volo.
Nel frattempo, per quanto l'hostess identica ad Anjelica Houston mi abbia rassicurato, l'odore strano che pervade la cabina continua ad inquietarmi. Non riesco a definire di cosa si tratti, ma è alquanto sgradevole. Mi rifugio in bagno e lo scarico verde smeraldo, vorticando come una pozione nel calderone, emana un aerosol di disinfettante. Quando torno al mio posto, però, l'odore c'è ancora. Dietro di me sento ancora risatine infantili e gente che si sporge sul corridoio per chiamare le assistenti di volo con grida sguaiate: "HOSTESS!!!"
Adesso capisco cos'è questo odore: è puzza di yahoo.

venerdì 5 settembre 2014

Gente di (passaggio a) Dublino


"Non c'è tradizione da cui trarre più motivo d'onore e che meriti di essere conservata con più gelosia dell'ospitalità" irlandese, proclama nel suo vanesio discorso il protagonista de I morti, l'ultimo racconto di Gente di Dublino. La vista di due ragazzi che vengono immobilizzati e portati via in manette dalla polizia proprio difronte al mio albergo in Temple Bar, però, non è esattamente il caloroso benvenuto che mi sarei aspettato. Sulle prime questo vivace e pittoresco quartiere mi è sembrato essere non poi tanto più rassicurante di quello che era un tempo Temple Bar: un ritrovo di frequentatori di postriboli e altri personaggi poco raccomandabili. Ma mi convinco ben presto che è solo per via dell'ora tarda. L'atmosfera, dopotutto, per quanto sopra le righe, è festosa: le menti più brillanti (e brille) del Trinity College e giovani turisti in cerca di divertimento si scatenano indistintamente ora al ritmo pop che pompa dai locali alla moda, ora a quello di gaie gighe irlandesi dei bei tempi andati, suonate con brio in qualche pub tradizionale, di quelli con il nome a caratteri dorati sul legno dipinto e gli ingressi rigurgitanti di fiori. A risuonare, però, è soprattutto l'arpa, quella impressa sulle lattine di Guinness. Nel bel mezzo della strada, tra un tizio che fa pipì all'angolo del negozio di attrezzatura da pesca di Rory e la vetrina ingannevolmente illuminata della bottega delle caramelle di zia Nellie, una coppia pomicia indisturbata. In realtà non sarebbe corretto dire che pomicino: più che altro poggiano il peso del corpo sulle labbra dell'altro e restano così, immobili, a sbarrarmi la strada. La ragazza, a giudicare dalla lunghezza esigua della gonna, sembra totalmente insensibile al freddo, mentre lui poggia la mano, forse per riscaldarla, sul maglioncino di lei, giusto in corrispondenza di un seno. In effetti lo tiene ben saldo in mano, lo impugna come il pomello di una porta, come a dire "tranquilla che te lo reggo io." Non so per quanto tempo intendano rimanere lì, paralizzati, muovendo solo ritmicamente le labbra, come quei pesci pulitori con la bocca premuta a ventosa sul vetro degli acquari. Basterebbe anche solo considerare questo modo statuario di amoreggiare per dare ragione a James Joyce, che definisce Dublino come "il centro della paralisi."
Io che mi sento sempre diviso tra desiderio di fuga e incapacità di agire, mi chiedo se Dublino sia davvero e/o sia ancora la trappola senza via di uscita che il suo più celebre cittadino descriveva nei primi racconti. Alcune norme del prestigioso Trinity College farebbero quasi pensare di sì: c'è un edificio-dormitorio che non può in alcun modo essere modificato né godere delle più moderne tecnologie quali una caldaia decente, per questo non è raro sorprendere studenti e professori uscire all'aperto in accappatoio per raggiungere le docce.
Altro perfetto esempio di immobilità sono il gatto e il topo rimasti incastrati due secoli fa in una canna dell'organo di Christ Church. Le mummie di questi Tom e Jerry ottocenteschi sono ancora oggi in bella mostra, giusto davanti alla caffetteria della cripta, come se bere un tè e addentare un muffin al doppio cioccolato nel buio di una cripta non faccia già abbastanza allegria.
 
Dettaglio dell'imponente Long Room, nella Old Library del Trinity College,
che conserva preziosi miniati irlandesi come il decoratissimo Libro di Kells.
Completano la santa trinità delle biblioteche dublinesi la piccola ma antica
Marsh Library e la National Library, dall'enorme volta color acquamarina
e i candidi putti, in cui è ambientato un episodio dell'Ulisse di Joyce. Meritano
anche le meraviglie orientali della Chester Beatty Library, nel complesso
del Castello di Dublino. 
Eppure, di pomeriggio, passeggiando per i negozi di Grafton Street, Dublino mi appare piena di vita e tutt'altro che deprimente. I cantanti di strada non sono eccessivamente lagnosi e non vedo nessuna ragazza trasandata che si trascini  dietro un'aspirapolvere rotta per tutto il centro come in Once. Ma nello spensierato viavai di passanti, c'è qualcuno che resta indietro. Proprio all'inizio di Grafton, un adolescente schiaccia un pisolino rannicchiato per terra, all'ombra di un lampione grondante di gerani rosa e petunie viola. Viola come la giacchetta a vento in cui si stringe. Mi sento quasi in colpa per questa osservazione puramente estetica. Ma forse, più dell'abbinamento di colori, ciò che mi colpisce è che a casa abbia lasciato una giacca praticamente identica. Forse portiamo anche la stessa taglia.
Ha ancora lo zaino sulle spalle, gonfio come la casa-carapace di una tartaruga. Credo proprio che stia dormendo, il viso rosso di acne contratto in un'espressione imbronciata e i capelli biondi appena mossi dall'aria pungente. Alle sue spalle si addensa una coperta grigia di nuvole sugli alberi di St. Stephen's Green. Pochi centimetri più in là, due bucce di banana leopardate sono allineate l'una accanto all'altra con cura superflua.
Intanto un ragazzo sulla trentina, alto, coi capelli scuri e il ciuffo leggermente appuntito si guarda intorno con aria preoccupata. Lo vedo lanciare brevi ma ripetute occhiate apprensive al giovane addormentato. Gli gironzola intorno, esitante, le mani infilate nelle tasche della giacca di pelle, finché non si decide a picchiettargli su una spalla. Il ragazzino apre gli occhi verde chiaro, gli dice qualcosa, forse un'imprecazione, o magari mugugna "Ancora cinque minuti..." Molto più probabilmente lo invita solo a farsi gli affaracci suoi. Poi richiude gli occhi. Il volto è duro, quasi superbo nella sua malinconia: "Sì, sto dormendo sotto un lampione, e allora?"  Non avrà più di vent'anni.
Un po' turbato dalla scena, proseguo per la mia strada, finché la vescica gonfia non mi offre un pretesto per tornare indietro in direzione del centro commerciale. Quei due sono ancora lì. Il ragazzino continua a sonnecchiare sotto il lampione fiorito. L'altro non si è allontanato, sembra cercare ancora con lo sguardo qualcuno che lo aiuti a far ragionare quello sbarbatello lì, steso sulla strada, in pieno pomeriggio, mentre una folla di curiosi si accalca attorno a uno spettacolo di break dance. Poi gli dà un altro colpetto sulla spalla. Le sue sono solo preoccupazioni da buon samaritano, oppure quei due si conoscono?
La mia capacità vescicale a questo punto non può assecondare ulteriori speculazioni, e corro su per i tre piani del centro commerciale: fatto interamente di vetro e ferro dipinto di bianco, sembra quasi una vecchia stazione, con un grande orologio a ricordare agli acquirenti che il tempo è denaro. Quando torno in strada, dopo essermi soffermato un po' troppo a scattare fotografie, scopro che sono spariti entrambi.
 
Dettaglio di Grafton Street.
La mattina dopo, risalendo per Nassau Street si raggiunge Merrion Square, dove il tempo sembra essersi fermato all'età georgiana. In fondo a una schiera di lucide porte laccate, tutte sormontate da lunette, se ne apre una dipinta di nero. E' quella di un hotel di lusso, da cui spunta fuori un vecchietto, tutto impettito nella sua divisa da facchino, color tortora, con due file di bottoni dorati che gli scivolano dalle spalle. L'ometto scende con piede malfermo i gradini e zoppica verso i nuovi ospiti, appena smontati da un taxi. Poi consegna i bagagli al suo collega più giovane, che gli zampetta dietro col cappellino sulle ventitré, mentre sopraggiunge a grandi falcate un altro buffo signore, nero come un corvo, in redingote e lustro cappello a cilindro. Non troppo lontano, oltre le fronde del parco, dalla roccia su cui è languidamente adagiato, un sempre elegantissimo Oscar Wilde sorride sghembo rivivendo chissà quale marmoreo ricordo.
 
Tipiche facciate in stile georgiano.
Per un esteta come Oscar Wilde non potevano realizzare statua commemorativa
più bella, un capolavoro di geologia applicata alla scultura: la giacca è di giada
canadese, i polsi e il colletto di thulite rosa, i pantaloni di larkivite norvegese,
mentre le scarpe e le calze sono di granito nero indiano. In mano regge un fiore
di pietra viola scuro che non sono riuscito a identificare.
Poco più tardi, dopo uno scroscio di pioggia, ritornando sull'acciottolato bagnato (questa volta d'acqua piovana) di Temple Bar, può anche capitare di inseguire con gli occhi un giovanotto distinto in bicicletta, i capelli chiari schiacciati sotto una coppola beige e il cappotto di tweed in tinta che gli svolazza dietro. Sembra pedalare direttamente dalle pagine di Joyce, per poi attraversare Eustace Street e sparire nella penombra di un ristorante persiano. Oltre le vetrine, incorniciate di legno verde scuro, ricambia per un istante il mio sguardo. Mi sono sempre piaciuti, quegli occhi che sembrano avere un po' tutti qui, nei paesi dal cielo grigio: liquidi, come se dovessero scivolare giù in una lacrima. E quel rossore acquerellato sulle guance, arabesche di capillari che paiono dipinte da un miniaturista medievale.
La volta del cielo torna a incupirsi mentre gli uccelli assediano gli archi a parentesi graffa del piccolo Ha'penny Bridge, da cui qualcuno sta lanciando del pane raffermo. I gabbiani schiamazzano, s'accapigliano, si prendono a beccate e si tuffano in picchiata verso l'acqua grigia del fiume. I cigni invece si tengono a distanza: non sembrano disposti a compromettere la loro dignità per una manciata di briciole. A loro nessuno può torcere una piuma dai tempi del mitico re Lir: i suoi figli, vittime della maledizione dell'invidiosa matrigna Aoife, furono trasformati in cigni per novecento anni, riacquistando sembianze umane solo in corrispondenza della cristianizzazione dell'Irlanda. Troppo deboli per stare al mondo, morirono tutti, ma non prima di essere stati battezzati da San Patrizio (che ha la fastidiosa abitudine di imbucarsi in quasi ogni leggenda celtica.)
 
Il Liffey Bridge, meglio conosciuto come Ha'penny Bridge per l'antico
pedaggio di mezzo penny.
 
 
Sull'altra sponda del Liffey, proseguendo sul lungofiume, in parallelo con Bachelor Walk ("La Passeggiata dello Scapolo") si arriva all'ariosa O'Connell Street. L'appuntamento con Joyce è in Earl Street North. E infatti eccolo lì, immobile, col suo bastone e le gambe incrociate, il viso rivolto verso l'alto. Anche lui "moriva dal desiderio di salire in cielo [...] e di volare verso un altro paese dove non avrebbe più sentito parlare dei suoi guai", e ci riuscì.
Quella di sognare la fuga, in fondo, non è affatto una prerogativa dublinese. Penso a mia madre, che ancora prima di tornare a casa da un viaggio, è già in partenza con la mente verso la prossima destinazione. Quanto a me - non ricordo se è successo a Dublino, o prima di arrivarci, o se mi sia lasciato suggestionare da quella frase di Pensione di famiglia -,  ho sognato di levitare a pochi centimetri da terra e poi, con una spinta delle gambe, schizzare in alto, quasi sfiorando le mura della cattedrale normanna del mio paesino di provincia, svolazzare incerto intorno alla vetta e infine sparire lontano. Quando mi sono svegliato ero nella mia stanza - che sia la mia o una camera d'albergo non importa -, ma ancora pima ero nella scatola del mio corpo, che a sua volta è dentro una scatola un po' più grande, quelle quattro mura attorno a me, che a loro volta sono dentro una scatola più grande, l'intero edificio, e così via, il quartiere, la città, fino al coperchio del cielo.

Illustrazione di Roman Muradov ispirata all'Ulisse di Joyce

giovedì 7 agosto 2014

Julie Shore

"Quello che succede in Salento rimane in Salento."
Ventitré anni e non sentirli. Nel senso che, bisbetico e pantofolaio come sono, comincio a pensare di non essermi mai sentito veramente giovane in vita mia. Per questo io e la amica Anny, poco giorni fa, dopo aver rimesso a posto la scatola di Scarabeo, abbiamo deciso di fare almeno un tentativo e provare a comportarci come i nostri coetanei. Così abbiamo fatto i bagagli e siamo partiti per un week end lungo in puro stile spring break, nella speranza di ritrovare i ventenni scatenati nascosti in noi. Ad accompagnarci in questo viaggio nell'anima in stile bevi-flirta-ama non potevano mancare una coppia che di divertimento se ne intende: la nostra esuberante amica Betulla e il suo ragazzo Alex. Destinazione: la romantica, scricchiolante villetta gentilmente messa a disposizione da mio zio, il Cosmopolita, in quel paesino del Salento di appena trecento anime che è Giuliano (per gli amici, Julie.) Inizia con queste premesse l'avventura di Julie Shore, una vacanza che sarebbe potuta benissimo essere un reality trash di quelli che trasmettono su MTV, di cui abbiamo scoperto essere tutti segretamente spettatori assidui.



Betulla, da sempre camaleontica in fatto di capelli, per l'occasione ha tinto la sua chioma dell'esatta tonalità di rosso sfoggiata da Holly, quella con le "tette enormi", nonché la più "accogliente" dei tamarri di Geordie Shore. L'unica ad essere biasimata per non aver mai visto neanche un episodio è Anny, che non ha voluto rinunciare al suo stile "da VIP" e alla sua paglietta, accessorio che le è subito valso il titolo di "Contessa."
La giornata di un Julie inizia alle sette, con un'imprecazione rivolta alle campane che rintoccano a festa dalla chiesetta vicina. Così vicina che l'acqua del rubinetto della cucina scorre direttamente dalla fonte battesimale. All'incirca un'ora dopo questo rintronante risveglio (durante i quali tutti, tranne me, sono riusciti a riprendere sonno), ci riuniamo per la colazione in giardino all'ombra della buganvillea: l'unica già pimpante, anche senza caffè, è ovviamente Betulla, che attraversa la tendina e ci regala il suo "Buongiorno!", con tanto di plateale gesto delle braccia, come a dire "ta ta, eccomi qua!"
Dopo aver vagheggiato il mare per metà estate, finalmente i miei piedi toccano la sabbia rovente. I riflessi del sole sulle onde sembrano ammiccare proprio a me, ma il primo a tuffarsi è Alex, fresco di lezioni di nuoto, che non appena entra in acqua regredisce allo stato infantile: inforca gli occhialini - che fanno sparire i suoi occhi a mandorla - si tuffa a bomba e inizia a mettere in moto i piedi, trafiggendoci con mille schizzi di acqua ghiacciata. Contagiato dal suo entusiasmo, mi metto in testa di insegnargli il delfino, che non rientra esattamente nel livello principiante. E infatti tutto ciò che riesce ad eseguire è lo stile "a schiaccianoci", con chiusura a scatto del bacino. Gli riconosco però il merito di aver fatto bracciate da gigante in pochissimi giorni, grazie all'esercizio e ai miei consigli personalizzati: "Alex, voglio un movimento più sinuoso, serpentiforme... un brivido che parte dalla testa e corre fino alle punte dei piedi... fai come la Tatangelo, devi sentirti una muchacha troppo sexy, che non dà troppa confidenza ai maschi... Sì, così, fai l'amore con il mar..."
Dopo le esercitazioni di apnea e immersione, mi sento in vena di divulgazione scientifica: "Alex, lo sai che i trichechi si scontrano petto contro petto quando lottano per le femmine?" Mi pento immediatamente di essermi fatto scappare questa curiosità etologica non appena ricordo di avere di fronte un ragazzone di ventisei anni con un torace a due ante. Da quel momento non mi riesce di intavolare una conversazione a mollo con Anny e Betulla senza ricevere il colpo di petto a tradimento del tricheco in calore. Questo genere di agguati sfociano quasi sempre in stupri acquatici, tra lo sbigottimento e lo scandalo generale dei bagnanti, che mi guardano fuggire a nuoto e guadagnare stremato la riva invocando gli déi affinché mi sottraggano dalle grinfie del mio assalitore, anche a costo di trasformarmi in un giglio di mare.
Se intanto vi interessa avere un'idea del tipo di conversazioni che intercorrono tra i Julie mentre galleggiano oziosamente vicino alla riva, vi informo che si tratta dei temi più variegati, dai traumi infantili ("Vi ricordate la scena in cui André strappa la camicia a Lady Oscar e la scaraventa sul letto?!") a quesiti morali di un certo spessore ("Quale dea avreste scelto al posto di Paride?"), dai piccoli drammi quotidiani di Anny ("Raffy, ma non è che ora sono troppo abbronzata?") al palato difficile di Betulla ("Cosa intendi dire esattamente con 'non mi piace l'olio'?")
Intanto, col passare dei giorni, il sole e la salsedine privano via via i capelli rosso Ariel di Betulla della loro originaria intensità e allo stesso modo sbiadisce sempre più la mia autostima, ripetutamente umiliata dai fisici scultorei dei miei vicini d'ombrellone. "Ma come fanno ad essere così perfetti?" mi domando inutilmente, "Che ci mettono questi nelle pucce?" Anny si guarda in torno anche lei come a voler trovare una risposta che non c'è e mi rivolge uno sguardo solidale, poi si sistema il rivestimento floreale del costume e riprende a litigare con WhatsApp, che le impedisce di ricevere notizie del suo adorato gatto Ciccio.
Mi riaccascio sconfitto sull'asciugamano, sentendomi come se qualcuno avesse conficcato un ombrellone nelle sabbie mobili del mio amor proprio. Subito però mi risollevo, avvistando Betulla che corre dal bagnasciuga. Gli occhi luccicanti mi dicono che ha in mente qualcosa. I capelli, ora arancioni, raccolti in una coda di cavallo, la fanno assomigliare a Misty, l'allenatrice specializzata in Pokémon d'acqua. Tra l'altro ha anche un bikini a fantasia Togepi.
"Raffy, andiamo sull'aqua-rocket?!"
"Il Team Rocket? Dove?!"
"L'aqua-rocket! E' un gommone trainato da un motoscafo! Ti prego, Raffy, andiamoci!"
L'ottuagenario che c'è in me ha già risposto "no" prima ancora di sapere di cosa si tratti. Per questo accetto, anche se poco convinto. Ma forse il vero motivo della mia accondiscendenza è che voglio allontanarmi al più presto da un gruppo di tamarri che hanno deciso di giocare a calcio sul mio telo-mare (con i loro succinti speedo bianchi e la catenina d'oro al collo sembrano degli enormi e fastidiosissimi bebè.)
"Sarà divertente, Raffy!" mi assicura Betulla, "L'hanno fatto anche quelli di Geordie Shore!"
Ecco le parole magiche che volevo sentire...
Lasciamo sotto l'ombrellone Anny, che si è strategicamente finta morta, e una volta imbracati col giubbotto salvagente, io, Betulla e Alex prendiamo posto su una spaziosa poltrona gonfiabile. "Ragazzi, ma siete sicuri che sia abbastanza figo?" domando. "A me sembra un banale giro in barca... non era meglio un pedalò?"
Non riesco nemmeno a finire la frase che il motoscafo parte come un razzo mozzandomi il respiro. Alex mi sghignazza in faccia mentre mi aggrappo disperatamente alle maniglie e mi dimeno con tutto il corpo come uno sgombro appena pescato. Anche il sadico alla guida della barca se la ride all'idea di farci rischiare l'osso del collo ad ogni sobbalzo e virata repentina. Il giro della morte sembra non dover finire mai: "Ma dove ci sta portando 'sto pazzo?" grida Alex, che dopo mezz'ora di scossoni ha ben poco da ridere. "Boh, da qualche parte dove questa cosa è legale..." urlo per sovrastare il fragore degli spruzzi. "In Albania forse..."
Al termine dello sballottamento a pagamento io e lui arranchiamo più morti che vivi verso l'ombrellone, mentre Betulla si è già lanciata in un'agguerrita sfida a racchettoni con Anny, che perde, anche se dignitosamente, solo perché penalizzata dagli acciacchi dell'età. Io, nominato a mia insaputa arbitro della partita, cerco di leggere La Mandragola, se non fosse che un tizio spalmato sulla sdraio più vicina, non potendo dividere con tutti gli altri bagnanti le cuffie del suo iPod, si premura di cantare a squarciagola tutta la discografia di Vasco Rossi, a cominciare da: "Quanti anni hai, bambina? Quanti me ne dai stasera?" Non so la ragazza della canzone, ma io mi sento a un passo dal pensionamento, visto che devo infilarmi gli occhiali anche solo per seguire i movimenti dell'istruttore di aquagym.
Calate le tenebre i Julie si fanno belli per la vita notturna di Gallipoli, luogo d'incontro di tutti i galletti e le pollastrelle più festaioli del Salento. Prima, però, un salto a casa per una cena leggera (solo un'insalata anni '80 con pollo, speck, cetriolini e maionese) e una doccia, incidenti domestici permettendo: basta tirare troppo forte la tendina, che la sbarra della doccia ti cade sul piede strappandoti un'irripetibile maledizione in grico salentino stretto e costringendoti a improvvisare un'esibizione di pizzica dal dolore. Come se non bastasse, lo sventurato in questione - che sarei io - non riesce a rimetterla al suo posto e si vede obbligato a chiamare Alex. Lui la riaggiusta in un attimo mentre balzello sul piede sano nel tentativo di acciuffare l'asciugamano. "Tranquillo, Raffy, non hai niente che non abbia già visto" mi rassicura. "Sì, giusto..." convengo, "d'altronde, parafrasando Laura Pausini, yo lo tengo como todos..."
Odo scrosci di risate dalla toeletta delle ragazze. "Mi raccomando, non fate come me: tirate la tendina con la massima delicatezza... come se doveste scostare il sottile velo che separa due dimensioni parallele..."
Raggiungere la discoteca, accuratamente selezionata dalla nostra PR, Betulla, si rivela anche questa un'impresa non priva di imprevisti. Dopo giri in tondo e strade chiuse, ci decidiamo a chiedere informazioni a due vigili: "Dovete tornare indietro fino alla rotonda, poi prendere per Lido Conchiglie e proseguire dritto. Vedrete le luci..."
"Sì, è come una cattedrale nel deserto" aggiunge poeticamente il suo collega. "Non potete non vederla."
Per sicurezza, lungo la strada, Betulla chiede conferma a (quelle che scopriamo troppo tardi essere) due squillo. Avremmo dovuto capirlo dal fatto che erano stravaccate su una panchina davanti a un ristorante con i piedi poggiati su di una ringhiera, malgrado la gonna. La prima, con i capelli mesciati di biondo e un forte accento brasiliano, ci liquida subito dicendo di non sapere dov'è, sorridendo amaramente della nostra ingenuità, mentre l'altra ci dà delle vaghe indicazioni.
Finalmente, scorgiamo all'orizzonte la Cattedrale nel Deserto, un'oasi luminosa incastonata nel buio dell'Arizona salentina. Mentre incespica sui tacchi giù per la discesa rocciosa che funge da parcheggio, Betulla, i capelli sempre più rosé, sembra una principessa venusiana su suolo marziano. E sempre più alieno appare ai Julie il mondo intorno a loro una volta varcate le soglie della Cattedrale: delle sirene appollaiate su piattaforme galleggianti nel bel mezzo di una piscina lanciano sguardi ammaliatori da sotto i loro candidi cappucci alla Kylie Minogue, mentre una drag-queen alta due metri misura a grandi falcate la pista da ballo portandosi dietro uno strascico di piume di pavone (ogni deserto, d'altronde, deve avere la sua Priscilla). Da un palcoscenico che spara lingue di fuoco, una tizia sputata Lorena Bianchetti, ma strizzata in un completino di pelle nera da scomunica, canta This is the Rhythm of the Night dando inizio alla serata anni '90. Ci rendiamo conto ben presto che si tratta di una discoteca mista, che accoglie festaioli di ogni gusto, il che è bello e molto moderno ma anche poco pratico se si è in vena di avventure estive. Ovunque incantevoli menadi danzanti e semi-dei abbronzati si contorcono spargendo libagioni di vodka in onore di un Bacco col colbacco, ma tra questi si zampettano anche i soliti personaggi felliniani che costituiscono il piccolo popolo della notte: la tarchiata signora Cotechina, con delle infradito-gioiello a impreziosirle le gambe gonfie come cactus, il nano che si struscia con la biondona nordeuropea, il cannato che si fascia con cura ossessiva un braccio con delle stelle filanti o il gruppetto di cinesi scheletrici armati di ventaglio.
Gli incensieri della Cattedrale nel Deserto sprigionano ondate di nebbia artificiale, che avvolge tutto e tutti, e ogni volta che si dirada nulla sembra più com'era prima. Sorridi ad Anny che balla spensierata e, un attimo dopo, dal fumo bianco emerge una mano ignota che scivola sulla stampa foulard del suo vestito, accarezzandole la schiena. Anny si volta verso di me e Betulla, smarrita, poi i suoi occhi verdi, sgranati dalla sorpresa, inciampano nello sguardo di brace dell'affascinante sconosciuto che la stringe a sé. Lui le balla intorno per un po', giocando delicatamente coi suoi ricci castani, senza smettere di guardarla fisso attraverso gli occhiali neri da finto nerd, mentre in mezzo alla barbetta balugina un sorriso assassino, anche più bianco della camicia che lascia intravedere il petto color caramello. Assistiamo tutti compiaciuti a questo incontro fatale, cercando di leggere il labiale. Anny ha l'espressione piacevolmente incredula di Aurora quando crede di ballare col gufo e gli altri animaletti del bosco e invece si ritrova di punto in bianco tra le braccia del principe dei suoi sogni.
Ma le correnti del dance-floor, è cosa nota, sanno essere molto crudeli e portano via troppo presto l'ambrato seduttore.
Dopo non molto lo vediamo intento a ripetere lo stesso approccio mellifluo con una sciacquetta bionda dalle labbra e gli zigomi chiaramente gonfi di silicone, che io e Betulla fulminiamo all'istante con sguardi stroboscopici. Anny, invece, la prende con filosofia: una vera Julie continua a ballare e a divertirsi anche col cuore infranto.
Con pochi altri eventi degni di nota si conclude questo ritorno musicale agli anni '90, e il fatto che per divertirmi davvero abbia dovuto aspettare di muovermi a ritmo di canzoni vecchie di un decennio dimostra quanto sia fallimentare il mio proposito di iniziare a vivere pienamente la mia giovinezza. La sento costantemente sgusciarmi tra le mani, come questo week-end, giunto troppo presto alla parte dell'"end". Chiuse a fatica le valige e sistemato tutto in macchina, facciamo rotta mogi verso casa. La mia memoria senile, però, ancora una volta ci costringe a una falsa partenza.
"Perché ho l'impressione di aver dimenticato qualcosa?" borbotto, riesaminando i trolley, borsoni e beauty-case che mi seppelliscono.
"Hai spento il gas?" domanda Alex.
"Sì."
"Hai abbassato le tapparelle?" chiede Betulla.
"Sì."
Segue un attimo di silenzio, poi... scoppia il panico: "KEVIN*!!!"

* Il nome è lo stesso del piccolo, negletto protagonista di Mamma ho perso l'aereo, ma chi o che cosa è "il nostro Kevin"? Se indovinate avrete diritto ad entrare nel cast della seconda stagione di Julie Shore!

Illustrazione di Giulia Tomai.

giovedì 24 luglio 2014

Il Segreto

Mi rendo conto soltanto adesso che associare l'immagine di un cetriolo ad
un post intitolato "Il Segreto" non è poi un'idea così geniale.
C'è solo una cosa peggiore di mettersi a dieta: mettersi a dieta durante la sessione estiva. Quando però i bottoni dei tuoi pantaloni cominciano a schizzare in orbita come le stelle cadenti a San Lorenzo, allora vuol dire che è tutto finito: quel gaio periodo della tua vita, quello in cui potevi startene in letargo sul divano anche per tutto l'inverno e rimanere comunque leggiadro e snello come un Apollo, ormai è solo un ricordo. Addio pelle di pollo. Adesso, ahimè, non si può più vivere di rendita: la magrezza è una conquista che va sudata.
Dopo essermi consumato di sospiri davanti allo specchio, guardando con raccapriccio quello che solo un anno fa era un vitino di vespa, mentre oggi potrebbe benissimo essere quello di Bruno Vespa, ho deciso di prendere in mano la situazione e fare qualcosa per rimediare alle tragiche conseguenze della sedentarietà dello studente universitario. Ma come prepararsi per la prova costume e allo stesso tempo concentrarsi in vista di un esame durante il quale dovresti dare almeno l'illusione di parlare fluentemente spagnolo? Come negarmi il cibo, unico piacere rimastomi?
Mosso dalla disperazione, ho pensato di auto-punirmi prendendo due attività deprimenti e unendole in un unico, orribile appuntamento quotidiano: guardare le repliche de Il Segreto in lingua originale su Rete Quattro e, contemporaneamente, fare step.
Se non provo alcuna vergogna a scriverlo qui nero su bianco è perché ormai della mia dignità non resta che qualche residuo incrostato e ripetutamente calpestato su quello step.
Passare giorni e giorni chiusi in casa a liquefarsi su una tragicommedia spagnola tardo-medievale ritagliandosi come unica "pausa" dallo studio un'ora di fitness in compagnia delle sonnolente avventure di Pepa, Tristán e Doña Francisca è un po' come vivere in una claustrofobica dimensione parallela, dove la vita è scandita da un lento susseguirsi di atti, scene ed episodi interminabili. A un certo punto raggiungi uno stato di muta agonia, e l'unica cosa che ti fa andare avanti è la debole speranza che forse, dopo due o tre settimane, la trama - minima - de Il Segreto comincerà a premere sull'acceleratore, almeno un po', anziché continuare a trascinarsi tanto per le lunghe. Viene quasi da complimentarsi con gli autori per come riescono a stiracchiare due o tre sub-plot più annacquati della sangria del più squallido ristorantino turistico di Madrid: questo sì che è stretching narrativo!
Il secondo punto del mio programma fitness è stato abolire una volta per tutte le un tempo consuete abbuffate serali, per esplorare il variegato, croccante, verdeggiante mondo delle insalate. Ingrediente base, il cetriolo, o come lo chiamerebbe Pepa, il pepino. Praticamente ho seguito la dieta del kappa (avete presente quelle buffe tartarughe antropomorfe con una specie di chierica sulla testa che di tanto in tanto spuntavano negli episodi di Pollon Combinaguai nonostante non centrassero un tubo con la mitologia greca? Quelli sarebbero i kappa, demoni acquatici delle leggende giapponesi a cui è consigliabile regalare dei cetrioli, di cui sono ghiotti, se non si vuole essere trascinati per le caviglie giù in fondo a uno stagno. Tra l'altro, dover stare a stecchetto rende anche me particolarmente propenso ad annegare gli incauti viandanti che osino avvicinarmisi.)
All'inizio mi ci mettevo proprio di impegno a preparare insalate originali e gustose, inventando nomi diversi per ogni minima variante (tipo la Sissi salad, versione light della più calorica Caesar), poi, col passare dei giorni, l'entusiasmo è andato scemando e ho preso a schiaffarci anche i gerani del balcone. Ci mancavano solo le streghe di Macbeth a rimestare l'insalatiera formato calderone e a suggerirmi altri ingredienti ("Mettici un occhio di tritone e qualche fibra di corda d'impiccato, già che ci sei...")
 Non so quanto tutto questo possa essere servito, ma ho tenuto duro fino al mio esame, dopodiché ho resuscitato la Wii Fit, mia fida personal trainer elettronica (che mi ha accolto a braccia aperte come un figliol prodigo, dopo ben 1546 giorni di totale inattività.) Di qui innanzi non voglio più neanche sentire un accenno della sigla de Il Segreto. Oltretutto, l'unico vero segreto qui è come accidenti faccia Pepa a mantenere quel girovita da urlo.
E ha pure partorito...

 

Illustrazione di Ryo Takemasa.

mercoledì 16 luglio 2014

Spassionatamente Raffy #2 - La ragazza delle arance

Avevo promesso di corredare ogni uscita di Spassionatamente
Raffy con un'opera d'arte postale, ma questa volta vi propongo
invece un'orientaleggiante moleskine art di Jon Lau.
Qualcosa vi turba? Siete ad un bivio e non sapete come uscirne? Avete scritto alla posta del cuore di Mina su Vanity Fair e vi ha liquidato in modo frettoloso e acido? Allora scrivetemi a spassionatamenteraffy@gmail.com o invitami un messaggio privato sulla pagina Facebook del blog, e troverete qui la risposta semi-seria a tutti i vostri problemi!

Caro Raffy,
approfitto di questo grazioso spazio con cui concedi a noi, vittime di Eros, di esprimere le nostre tempeste amorose (delle quali faremmo volentieri a meno) per riportarti una storia tormentata, sebbene mi riguardi solo indirettamente. Da ben sette anni una ragazza della mia comitiva, di qualche anno più grande di me, ha maturato un progressivo cambiamento caratteriale: ha cominciato a coltivare tutti gli interessi che accompagnano me sin dalla nascita, ma che a lei erano sempre stati estranei. Si è proposta di accompagnarmi all’opera, alle mostre d’arte, al cinema, viaggi culturali. Ho notato, inoltre, la sua prontissima risposta a qualsiasi mio messaggio e un’apprensione verso ogni mio stato d’animo che schiferebbe persino il Telefono Azzurro. Non sto ad elencarti le situazioni in cui è palese lo zelo con cui esaudisca ogni mio desiderio (di natura materiale, non fraintendiamo!), e l’alacrità con cui si preoccupi di prevenire ogni mia mancanza, sebbene io non le abbia mai richiesto qualcosa. “Oh quanto mi piacciono le arance rosse” – esclamai una sera – e il giorno dopo mi vidi recapitare quei frutti a casa, dopo un messaggio che mi avvertiva della prossima consegna, con tanto di irrinunciabile smile.
Dopo anni passati così, ho cominciato – solo da qualche mese – a sospettare che la succitata abbia qualche simpatia per me, sospetto che, rispolverando le vicende passate, credo sia ben che fondato. Ho sempre vissuto a un palmo da terra, concentrato tutto per le cose mie, centellinando i contatti con la realtà. Detto ciò, accortomi della gratuità con cui per tutti questi anni ho di fatto usufruito di una gentile amica, comincia a pesarmi questa situazione. Ora ti chiedo come potrei prendere le distanze da questa cortesia ad oltranza. È necessario comunicare chiaramente con lei, sebbene questa non si sia mai palesemente dichiarata? O dovrei solamente adottare un atteggiamento di indifferenza, astenendomi da ogni uscita in cui c’è lei ed evitando ogni contatto reale o virtuale?
A te chiedo come comportarmi, fiducioso di una giovevole risposta, nel frattempo ritorno nel mio mondo, con  l’inconfessata speranza di trovare un’anima gemella che mi faccia rimettere i piedi per terra...
Un abbraccio
Appassionato ‘96

Caro, appassionato amico,
Regali, inviti, attenzioni e ogni genere di cortesie: la sventura su di te si è proprio accanita! Io ti dico: se la vita ti dà arance, fatti una spremuta.
Attirarla in una trappola, darle false illusioni solo per strapparle una dichiarazione e poi spezzarle il cuore sarebbe una crudeltà di cui nemmeno il Visconte di Valmont si macchierebbe. Quanto a ignorarla del tutto, la trovo un atteggiamento ingiustificato. Nessuno invece potrebbe muoverti il benché minimo rimprovero se volessi continuare a fare il finto tonto e scongiurare lo scorbuto seguitando a sbocconcellare gli agrumi così solertemente forniti dalla tua ammiratrice. E al bando i sensi di colpa: non l'hai certo voluto tu! A quanto pare ricoprirti di arance come un carro del carnevale di Ivrea la rende felice. La fanciulla fa tutto di sua iniziativa, e non mi pare domandi qualcosa indietro.
Il suo modo ortofrutticolo di corteggiarti, comunque, lo trovo estremamente romantico. Sei proprio sicuro che non faccia per te? Gli aranci non li vogliamo proprio far fiorire?
Questa vicenda mi ricorda la storia dell'imperatore mandarino Li Longji, che per compiacere la golosità della sua concubina preferita, la bellissima Yang Yuhuan, aveva ordinato a dei messi reali di portare dal sud della Cina rifornimenti quotidiani di litchi, il suo frutto preferito, che cresceva solo in quelle regioni. Approfitto dell'occasione per informare i lettori che anch'io vado pazzo per questi dolcissimi frutti dalla polpa madreperlacea e il guscio color di rosa. Lo dico così, en passant, giusto nel caso in cui qualcuno volesse conquistarsi i miei favori ma fosse a corto di idee.
Tornando a te, o mio sognante amico, se le sue premure non richieste proprio ti mettono a disagio, ti consiglierei innanzitutto di darci un taglio con le voglie da puerpera espresse ad alta voce. Se c'è una cosa che ho imparato dalla parabola di Bastiano ne La storia infinita è che bisogna essere molto cauti ad esprimere i desideri, perché potrebbero anche avverarsi, e non si può mai sapere in quali disgraziate modalità.

Ciao Raffi! Ho un altro problema, tutte le volte che cerco di aprire un barattolo con chiusura ermetica mi sforzo inutilmente, e non porto mai a termine la missione. C'è una congiura contro di me da parte delle maggiori industrie alimentari o soffro di una strana e rarissima malattia?
Punto G.


Mia astenica, cara Punto G.,
il tuo problema è tutt'altro che raro: per me, di prima mattina, persino strappare la foglia d'alluminio dei vasetti di yogurt rappresenta un'impresa erculea. Per non parlare poi dei barattoli di marmellata e delle caffettiere che qualcuno avvita con un po' troppo vigore. Molte sono le tecniche per porre rimedio alla tua frustrazione, ma ti propongo qui, convenientemente illustrato, il metodo che ritengo più efficace:


Se però tracciare un cerchio magico e risvegliare un antico e potente demone rimasto sopito per millenni ti sembra una procedura ancora troppo faticosa, io ti consiglierei di servirti della forza bruta di una creatura più docile da soggiogare: tuo padre, o il padre più vicino. Dopo il concepimento dei figli molti padri, anche a distanza di anni, si sentono smarriti e non sanno bene cosa fare: avere un barattolo in mano con cui armeggiare li farà sentire utili e realizzati.

LinkWithin

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...