giovedì 28 novembre 2013

La Biblioteca Classica di Raffy: Come on Barbie, let's go party!

 
La cantante degli Aqua non è stata la prima norvegese a dichiarare di sentirsi una Barbie girl. Prima di lei c'è stata Nora Helmer, la protagonista di Casa di bambola (Et dukkehjem)*, il dramma ibseniano che ha scosso le fondamenta della borghesia europea di fine Ottocento, un terremoto il cui epicentro è un insospettabile, sobrio salotto di Oslo. Qui fa ritorno canticchiando la padrona di casa, stanca ma felice, dopo un'estenuante mattinata di shopping natalizio.
Immaginate il freddo che si porta addosso. Si sfrega le mani e, senza neanche togliersi il cappotto, ritorna ad ammirare con febbrile entusiasmo i regali che ha comprato. "Gorgheggia lì fuori l'allodola?" domanda dallo studio la voce dell'avvocato Helmer, suo marito. "Proprio così" trilla Nora, aprendo un paio di pacchetti. "Quand'è venuto a casa lo scoiattolo?" chiede ancora Helmer, senza staccarsi dalla scrivania. "In questo momento" squittisce lo scoiattolo, poi rosicchia in tutta fretta un dolcetto, nasconde l'incarto e lo chiama, senza trattenere l'eccitazione: "Torvald, vieni a vedere i miei acquisti."
Innanzitutto, per noi gente di mare... Mediterraneo, che siamo abituati a immaginare i nordici come algidi e austeri, fa un po' strano sentir parlare un norvegese come Ned Flanders, un "trottolino amoroso" tutto "pucci pucci." Ci saremmo aspettati i ghiacci perenni, non certo la ghiaccia reale.
Ciò che più non convince di queste prime battute, però, è che a pronunciarle siano un marito e la madre dei suoi figli. Torvald la vezzeggia, la rimprovera bonariamente per le spese eccessive, la coccola, le lancia occhiate torve quando esagera con i dolcetti, fa sfoggio di un melenso campionario di nomignoli ornitologici, e infine cede ai suoi capricci perché gli spezza il cuore vederla col broncio. Il loro si direbbe piuttosto un rapporto padre-figlia. Quasi non ci sorprenderemmo se Torvald la lasciasse ballare sui suoi piedi come farebbe un papà.
Nora, d'altronde, è perfettamente a suo agio nel ruolo di moglie-bambina: per lei la felicità è rivestita di glassa, o morbida come pelliccia di visone, se non tintinnate come un borsello pieno di corone da spendere.  Leziosa e civettuola, dei bambini ha anche l'egoismo e la spontaneità quasi brutale. Non si rende nemmeno conto (o forse sì?) di sbattere in faccia la sua felicità alla sua vecchia amica di scuola, ridotta sul lastrico, vedova e senza nemmeno il conforto dei figli. E al dottor Rank, l'amico di famiglia palesemente invaghito di lei, dispensa sorrisi e dolci colpetti inferti con le sue nuove calze color carne (ci manca solo lo spogliarello in stile Sofia Loren), del tutto inconsapevole delle emozioni che innesca.
Il salotto degli Helmer è "arredato con gusto, ma senza lusso." Non ci saranno dunque divani leopardati o tappeti zebrati, ma è a tutti gli effetti una giungla. E la prima, fitta, foresta pluviale che ha preso possesso della casa è senza dubbio quella dei sentimenti, un groviglio inestricabile. A partire dai disequilibri della coppia.
In occasione di un ballo in maschera, Nora si veste da napoletana e fa arrossire tutti gli uomini presenti esibendosi in una provocante tarantella, finché Torvald la rapisce e la trascina di peso a casa, non vedendo l'ora di dedicarsi ad altri, più intimi, balli di coppia: "E' pur bello trovarsi di nuovo fra le proprie pareti... solo con te. Oh, creatura mia deliziosa e cara!"
"Torvald, non guardarmi così!" protesta debolmente Nora.
"Non dovrei guardare il mio bene più caro, guardare tutto lo splendore che mi appartiene, tutto mio, soltanto mio? [...] Sai, quando sono in società con te, sai perché ti parlo così poco, ti sto lontano, ti mando solo ogni tanto un'occhiata di soppiatto? Sai perché faccio così? Perché mi figuro che tu sia la mia amante segreta, la mia segreta sposa e che nessuno immagini come fra noi due ci sia un segreto. [...] E quando poi stiamo per allontanarci e io avvolgo nello scialle le tue spalle giovani e tenere, questo tuo collo meraviglioso... mi figuro allora che tu sia la mia giovane sposa e che stiamo uscendo dalla chiesa, che ti porto per la prima volta in casa mia, che sono la prima volta solo con te... solo, solo con te, mia giovane bellezza tremebonda! Tutta questa sera ti ho desiderata. Quando ti ho visto turbinare, così seducente, nella tarantella, mi sono sentito ribollire il sangue; non ne potevo più... e perciò ti ho riportata a casa così presto..."
Torvald, portavoce della borghesia emergente, classe sociale che si fregia orgogliosamente del diritto alla proprietà privata, rivendica in questi termini il possesso di sua moglie. Con una confessione che mette i brividi, trasforma l'incontro nel talamo nuziale da scambio d'amore tra marito e moglie, che è quanto di più legittimo possa esserci, in uno squallido segreto. Dichiara, in altre parole, di vivere la sessualità come una quotidiana violazione, il perpetrarsi giornaliero di un rito sanguinoso, la rievocazione della prima, traumatica notte di nozze. Niente lo attrae di più che vedere Nora "giovane" e "tremebonda", candida sposa ancora immatura e indifesa.

Luce del sole in salotto. Con i suoi malinconici grigi e i colori slavati, il danese
Vilhelm Hammershøi (1864 - 1916), riesce nell'impresa impossibile di ritrarre il silenzio.
Sulla gaia atmosfera natalizia, sull'apparente serenità degli Helmer, però, è già calata un'ombra minacciosa. Il salotto, simbolo di comodo conformismo, è a un passo dall'esplodere e vomitare la sua imbottitura di piume.
Nora, che non perde occasione per sbandierare ai quattro venti la sua felicità, decide, non contenta, di metterla alla prova. Se la Tristana di Galdós non vedeva l'ora di scappare dalla torre in cui l'aveva relegata il suo tiranno, Nora non si ribella al suo "padre-padrone", anzi, vuole saldare ulteriormente questo vincolo con una sfida alquanto pericolosa: contrae un debito illecito con un brutto ceffo per salvare il sedere a Torvald, ma nasconde tutto al consorte, provando così l'ebbrezza della responsabilità. Per lei, però, questo non è che l'ennesimo gioco infantile: giocare a mandare avanti la baracca, a "portare i pantaloni", la pretesa narcisistica di "salvare" il suo Torvald.
Ma quando il procuratore Krogstad la ricatta, mettendo in dubbio la legalità del debito, la "bambola" non tenta di difendersi. Al contrario, confessa il suo reato: aver falsificato la firma del padre. Arma il suo nemico, sicura del fatto che suo marito interverrà prontamente a toglierla dai guai. Non dubita neanche per un istante che Torvald si prenderebbe una pallottola pur di non far torcere un capello alla sua "lodoletta". D'altronde lui gliel'ha fatto credere in tutti i modi, giurandole di esserci sempre per lei, accada quel che accada: "Cerca di riprenderti e di ritrovare l'equilibrio, mio spaventato uccellino canoro. Riposa tranquillamente. Ti coprirò con le mie ali forti. [...] ti terrò come una colomba inseguita che io abbia strappato agli artigli assassini dello sparviero."
Ma a Torvald non funziona il Bat-segnale, proprio ora che c'è bisogno di lui.
Nora, che fino a cinque minuti prima era stata il suo "uccellino canoro", una volta scoperte le carte, diventa una "Disgraziata... cos'hai fatto? [...] Hai distrutto tutta la mia felicità! Tutto il mio avvenire hai annientato. E' orribile solo a pensarci. Sono nelle mani di un uomo senza scrupoli..." E quando, ormai calata nel ruolo della vittima tragica, Nora si dichiara disposta a suicidarsi per espirare la sua colpa, il marito le grida di farla finita con le sceneggiate napoletane e, rivelando un cinismo disarmante, considera ad alta voce che il suicidio della moglie le impedirebbe di scagionarlo da ogni accusa di complicità.
Tuttavia il reato, tutto sommato, non è niente di ché: una firma falsa... capirai! Non parliamo mica di frode fiscale o favoreggiamento della prostituzione minorile (ogni riferimento è casuale). Chi non ha giustificato un'assenza a scuola copiando la firma della mamma?
Di fatti si riesce in poco tempo a trovare un compromesso che metta a tacere il ricattatore. E' tutto a posto, ora: nessuno minaccia di cantare.
"Sono salvo, Nora, sono salvo!" è la ridicola esclamazione di Torvald, dopo aver temuto il peggio. "E io?" pigola lei. "Anche tu, beninteso. Siamo salvi tutti e due, tu e io."
Ma non si è accorto che ormai non esiste più nessun "tu e io."
La delusione di Nora è devastante come una doccia gelata. A dicembre. In Norvegia.
La donna non può fare a meno di ripensare a tutte le volte in cui lui le ha fatto credere di essere sempre pronto a difenderla a spada tratta. Per otto anni di matrimonio l'ha fatta sentire la sua Lois Lane. Nel momento del pericolo aveva sempre creduto di vederlo sfrecciare in suo soccorso: "E' un aereo? E' un uccello? No, è Torvald!"
Ed ora è tutto finito. La tremula colombella scopre che il suo nido non è affatto ben sorvegliato come pensava. Che è sempre stata un canarino chiuso in gabbia. Che papà pellicano non si prenderà la briga di vomitarle cibo nel becco come aveva promesso.
Adesso la "lodoletta" si vede costretta, non senza un certo fastidio, a provvedere personalmente a se stessa, a volare con le proprie ali. Di fronte all'esasperante incapacità del sesso forte di mantenere il controllo e gestire il ruolo di comando che si arroga, Nora comprende di doversi rimboccarsi le maniche: chi fa da sé fa per tre. Non vorrebbe essere indipendente, pensa ancora che sia molto più comodo ottenere tutto ciò che vuole sfarfallando le ciglia e giocando coi bottoni della giacca del marito, ma stando così le cose non ha altra scelta che emanciparsi. Non è ancora una vera femminista, ma le tocca la rogna di interpretarne la parte, abituata com'è, dopotutto, ad indossare un travestimento dopo l'altro: da quello da bambola a quello da popolana napoletana, dalle vesti di mogliettina devota a quelle di femminista improvvisata.
"Tu non pensi e non parli come l'uomo di cui possa essere la compagna. Svanita la minaccia, placata l'angoscia per la tua sorte, non per la mia, hai dimenticato tutto. Ed io sono tornata ad essere per te la lodoletta, la bambola da portare in braccio. Forse da portare in braccio con più attenzione perché t'eri accorto che sono più fragile di quanto pensassi. Ascolta, Torvald. Ho capito in quell'attimo di essere vissuta per otto anni con un estraneo. Un estraneo che mi ha fatto fare tre figli... vorrei stritolarmi! Farmi a pezzi! Non riesco a sopportarne nemmeno il pensiero!"
"Capisco. Siamo divisi da un abisso" bela Torvald, che non solo avrà un due di picche, ma si sveglierà l'indomani solo e con i postumi di una sbronza. "[...] Ma io ho la forza di diventare un altro."
"Forse, quando non avrai più la tua bambola" è la fredda risposta di Nora, prima di uscire di casa e lasciare tutto e tutti.
A questo punto, la bambola ribelle, antepone la propria individualità al suo ruolo di moglie e madre. E tanti saluti.
L'eco di quella porta chiusa con veemenza è il tuono che annuncia il temporale. Se non all'alba, assistiamo quantomeno all'aurora del femminismo.


 Anche le più banali scene di vita domestica, nella pittura di Hammershøi, si
 tingono di un enigmatico senso d'attesa, lasciando che le domande di chi guarda
restino aperte, come le porte oltre cui si perde lo sguardo di questa donna.
Quelle che vi ho proposto in un questo speciale non sono ancora storie di rivalsa, ma esercizi di femminismo, prove generali, primi, meccanici passi lungo la strada in salita della parità tra sessi. Ma si sa, sono proprio i primi passi quelli più difficili.
Per ogni Nora che va via di casa sbattendo la porta con la mezza idea di ritornare, c'è stata qualcun'altra che non ha fatto più ritorno. Per ogni Tristana che sogna di vivere del proprio lavoro ma poi rinuncia ad ogni sua ambizione, c'è stata qualcun'altra ce l'ha fatta.
Dopo aver nascosto una bomba ad orologeria in ogni tranquillo focolare d'Europa, quello che Ibsen e Galdós hanno rappresentato, oltre al femminismo acerbo delle loro protagoniste, è il clamoroso fallimento dell'uomo, la meschinità del "sesso forte."
Ancora oggi si pensa solo a quale tavolo sistemare la donna, a quale posto riservarle, senza mai scomodare più di tanto il maschio alfa. Non ci si dovrebbe preoccupare anche di riscrivere la definizione di virilità, una definizione moderna, che non sia in latino e scolpita sulla pietra o che non sia fatta di grugniti da cavernicoli?
Sembrerebbe che tutto ciò che facciamo, invece, sia solo litigare per il lato del letto in cui preferiamo dormire.

* Bibliografia: Casa di bambola di H. Ibsen, traduzione di Ervino Pocar e introduzione di Roberto Alonge, Oscar Mondadori, Milano 2012. 

martedì 26 novembre 2013

La Biblioteca Classica di Raffy: Tu mi fai girar, tu mi fai girar...

Non capisci quanta perversione ci sia a questo mondo finché non cerchi "Barbie"
su Google. Questa è la più innocente delle fotografie di Mariel Clayton, più nota per

gli scatti in cui ritrae la bambola per antonomasia in preda ad impensabili raptus
omicidi, sanguinarie crisi psicotiche, sbronze epiche o temerarie pratiche erotiche: 

Ken fa quasi sempre una brutta, bruttissima fine.
La piccola Biblioteca Classica di Raffy mette a disposizione le sue umili stanze per dar luogo a un incontro fra due eroine letterarie molto lontane, ma solo geograficamente: la prima, direttamente "dai fio... dai fio... dai fiordi della Norvegia", è Nora, la principale inquilina della Casa di bambola costruita da Ibsen, padre del teatro moderno. La seconda è Tristana*, che non ha mai messo piede fuori dalla sua Madrid, protagonista del romanzo eponimo di Benito Pérez Galdós (che mi azzardo a definire, semplicisticamente, come il cugino spagnolo di Balzac e Tolstoj.) Ma perché mai presentarle insieme?
Non certo perché una è bionda e l'altra è mora. Nate a un decennio di distanza (nel 1879 la prima e nel 1892 la seconda), entrambe, a loro modo, sono state rigirate come bambole nelle mani di un uomo ed entrambe sono state considerate delle antesignane del movimento per l'emancipazione femminile, per quanto il loro sia un femminismo ancora timido e claudicante.
Tristana, "era giovane, bellina, flessuosa e di un candore quasi inverosimile, puro, alabastrino; guance senza colore; occhi neri, più notevoli per vivacità e luminosità che per grandezza; [...] quando si riassettava e indossava la sua vestaglia viola a rosoni bianchi, con lo chignon attraversato e tenuto su da forcine dalla capocchia dorata, era l'immagine fedele della dama giapponese di alto lignaggio. Ma che dire d'altro e di più, se non che l'intera sua persona pareva di carta, carta viva..." Questa diafana principessa delle fiabe, questa geisha dal nome malinconico è un'orfana affidata alle cure di un amico di famiglia, don Lope, un signore che più spagnolo di così non si può: sognatore ed idealista come don Chisciotte, è anche lussurioso come don Giovanni, per di più in piena crisi di mezza età. La sua è una moralità che è tutta un programma: come il nobile cavaliere errante, il vecchio don Lope lotta contro mulini a vento della modernità, professa gli anacronistici valori della cavalleria e difende a spada tratta i più deboli, ma, come il Cavaliere, non è altrettanto cavalleresco - la carne è debole! - con il sesso "debole": non esita ad accogliere la diciannovenne Tristana sotto la sua ala protettiva, le porta di sopra le valige facendo sfoggio di ogni galanteria e le mostra la sua stanza tra carezze e bonarie occhiate paterne, ma prima ancora che la nuova arrivata abbia il tempo di mormorare un complimento di circostanza alla casa, il vecchio rapace l'ha già incantata con la sua parlantina suadente, artigliata, sedotta e privata della sua innocenza. Abusando dell'ingenuità e della passività muñequil ("bambolesca") della ragazza, il consumato seduttore, inorridendo all'idea di perdere colpi, si adopera per fare della sua protetta una concubina, una bambola parlante, un grazioso soprammobile da lasciare a impolverarsi sul comò, e infine il suo ultimo, preziosissimo trofeo.
D'altronde il marpione è in buona compagnia: la letteratura ottocentesca è tutto un pullulare di sudice mani rugose che frugano nella penombra della coscienza in cerca di carni giovanili da palpeggiare. Sono gli stessi impulsi malsani che nel Novecento emergono dal sotto-testo per imporsi con sempre maggiore prepotenza (Lolita di Nabokov). Col nuovo millennio, siamo passati dalle parole ai fatti, nella fattispecie ai fatti di cronaca quotidiana, alle trascrizioni degli sms dei clienti, ai sordidi dettagli e alle smorfie della D'Urso, autentiche quanto un'emoticon di WhatsApp.
Ben presto, però, dopo pochi mesi della sua nuova, claustrofobica vita da olgettina, Tristana comincia a prendere coscienza della sua condizione. Ora capisce cosa si nasconde sotto la giacca da camera alla Hugh Hefner di don Lope e lo riconosce per quello che è veramente: il vecchio viscido che ha approfittato di lei. "Man mano che la stoppa della bambola andavano trasformandosi in carne e ossa," la giovane comincia a provare una sempre maggiore repulsione per il suo tiranno, nutre la sua già fervida immaginazione e prende a vagheggiare la fine della società patriarcale, partendo dalla pretesa di ricevere un'istruzione. Non avendo ancora modelli femminili forti che rispecchino i suoi pensieri "sovversivi", Tristana simpatizza per il più terribile: quando l'insegnante di inglese a domicilio le suggerisce di leggere i capolavori di Shakespeare, sceglie subito Macbeth, facendo sua la frase "Unsex me here!" A gridarla a gran voce è Lady Macbeth, una delle figure letterarie più inquietanti di sempre, che per convincere il marito ad uccidere il vecchio re e salire così al potere, invoca gli spiriti "che presiedono i pensieri di morte" e prega loro di "privarla del suo sesso", ossia di tutte le qualità che fanno di lei una donna, come bontà, pietà e misericordia, in modo da renderla capace di compiere la più sacrilega delle nefandezze. La nobildonna scozzese arriva persino a pregare i demoni di sostituire in veleno il latte del suo petto: da donna creatrice di vita, vuole deliberatamente tramutarsi in fredda dispensatrice di morte. Ora, non è che a Tristana sia mai passato per la mente di affettare don Lope come jamón serrano, ma anche lei, come Lady Macbeth, "rifiuta" il suo genere d'appartenenza: non intende accettare il ruolo che la società dell'epoca impone alla donna. O meglio, non si accontenta delle tre, misere alternative che le vengono offerte: angelo del focolare, attrice o prostituta.

La descrizione di Tristana è un dipinto letterario da ascrivere al Giapponismo,
l'influenza che il Paese del Sol Levante esercitò proprio sull'arte del tardo Ottocento. 
A sinistra La toeletta (Making her toilet) dello statunitense William Meritt Chase,
a destra L'orecchino (Der Ohrring) dell'olandese Georg Hendrik Breitner.
Sarà l'amore del giovane e romantico pittore Horacio ad alimentare le sue speranze di libertà e a farle scoprire i suoi talenti nascosti. Nell'atelier dell'artista, dove sgattaiola ogni volta che don Lope fa la siesta, Tristana inizia a modellare la sua personalità e a collezionare un'aspirazione dopo l'altra: pittrice, ballerina, musicista, interprete... non c'è categoria di Amici per cui non sia disposta a farsi provinare. Horacio e Tristana, novelli Tristano e Isotta, vivono una folle passione clandestina, alle spalle del vecchio farfallone, una passione che si accende anche del sacro fuoco della letteratura: tra un'ode di Leopardi e un'aria di Verdi, i due si innamorano leggendo di Paolo e Francesca, che a loro volta leggono di Ginevra e Lancillotto... altro che Babi e Step!
Galdós doveva saperne qualcosa di innamoramento, o quanto meno doveva aver avuto una lunga esperienza di guardone, perché descrive con incredibile verosimiglianza la loro intimità e ci rende in tutto e per tutto partecipi della loro complicità: sembra quasi di sentire Tristana ridere, stretta ad Horacio, con il viso affondato nell'incavo del suo collo, e non è necessario disporre di grande immaginazione per vederli, sdraiati su una dormeuse, a punzecchiarsi, prendersi in giro e giocare a fare la lotta. Li ascoltiamo parlarsi a distanza di un bacio, scambiandosi parole di una nuova lingua, coniata a loro uso esclusivo, un misto di spagnolo di strada, citazioni colte e vezzeggiativi in italiano: quello che l'autore chiama "el vocabulario de los amantes."
Horacio, deciso a carpare il diem e a liberare Tristana dall'ombra opprimente di don Lope, vorrebbe già correre a prenotare la chiesa prima che qualche altra coppia si accaparri le date migliori, ma lei riesce a intercettare in tempo le partecipazioni: "No, no [...] se trovo un modo per campare, starò da sola. Viva l'indipendenza!... a patto ch'io continui ad amarti e ad essere sempre tua. [...] Di matrimonio neanche a parlarne. Non possiamo accapigliarci su chi deve mettersi le gonne. Se fossi la tua schiava, credo che tu mi ameresti meno e, se invece, ti tenessi in pugno io, il mio amore per te varrebbe ben poco: onorata libertà, questo il mio motto..." Slogan che all'epoca suona come un ossimoro.
Come quello di Paolo e Francesca, anche questo idillio non può durare a lungo: arriva il momento in cui bisogna darci un taglio con "Il mondo è mio" e scendere dal tappeto volante. Mentre Horacio è costretto ad allontanarsi da Madrid per assistere sua zia inferma, i due continuano a scambiarsi roventi lettere d'amore, ma Tristana comincia anche lei a scivolare in una lenta malattia e, caduta ancora una volta sotto l'egida di don Lope, si lascia sopraffare dall'immaginazione. Durante l'assenza del suo amato, inizia ad idealizzare Horacio, lo trasforma in un essere perfetto e disincarnato, "senza rendersi conto di tributare culto a un Dio che lei stessa aveva creato..."
Non voglio dirvi cosa ne sarà di questa "infelice bambolina" che sogna di diventare una donna vera. Per saperlo, oltre che, naturalmente, leggere il romanzo, vi basta domandarvi che fine fanno solitamente le bambole...
Al ritorno di Horacio, Tristana non riconoscerà l'essere ideale ed etereo delle sue fantasie, ma vedrà solo un uomo come qualunque altro. Delusa, ma in un certo senso anche rasserenata, rinuncerà alle sue ambizioni, alle sue donchisciottesche manie di grandezza e ai suoi sogni di emancipazione. Troppo avanti rispetto all'epoca a cui appartiene, il destino si affretta a farle lo sgambetto, prima che si spinga ancora oltre...

Come al solito, mi sono dilungato troppo. Il nostro tè letterario prosegue nel salotto buono degli Helmer, a Oslo. Raggiungeteci cliccando qui.

* Bibliografia: Tristana di B. Pérez Galdós, traduzione di Francesco Guazzelli, La Biblioteca di Repubblica, Gruppo Editoriale L'Espresso, Roma 2004; Tristana di B. Pérez Galdós, a cura di Isabel Gonzálvez e Gabriel Sevilla, Ediciones Cátedra, Madrid 2004.  

martedì 19 novembre 2013

Bruxelles, ma belle (capitolo secondo)

Dopo avervi lasciato col fiato sospeso per molto più tempo di quanto non sia sadico fare, torno a tessere per voi, con fiamminga dovizia di particolari, l'arazzo istoriato della mia permanenza in Belgio. Se l'aggirarsi di brutti ceffi per le vie di Bruxelles o i movimenti notturni degli insospettabili ospiti di un hotel a quattro stelle non vi hanno ancora sconvolto, aspettate di leggere della nostra spericolata incursione nelle Fiandre, brumoso scenario di quella che è senza dubbio la avventura più densa di mistero che abbia mai vissuto. E dove avrei potuto viverla, se non nella terra natia di George Simenon?
Lo scorso Ognissanti, io e i miei compagni di viaggio abbiamo salutato momentaneamente Bruxelles per dirigerci a Bruges, non immaginando che lo scrittore belga avesse dato alle stampe, tra i suoi innumerevoli romanzi, un giallo intitolato Il viaggiatore di Ognissanti.
"Il tipo della biglietteria mi ha detto che devo riportare il giorno e la data sul biglietto... ma come si scriverà 'giovedì' in francese?" parlottavo tra me e me, in attesa del treno, usando la schiena della mia amica Anny come secretaire. "Jeudi? J-E-U-D-I? Meglio scriverlo in inglese... se non altro perché jeu significa anche 'gioco' e se dovessi sbagliare non vorrei che il controllore mi sghignazzi in faccia: 'ahahahah ha scritto giocodì!'"
Per fortuna il mio francese (appena sauté) non è servito nella fiamminga Bruges (o Brugge), dove non è raro sentire qualcuno cambiare lingua nella stessa frase ("Ja... merci!") mentre si passeggia lungo le morbide curve dei canali, su cui si affacciano i frontoni a gradoni delle antiche dimore mercantili (più gradoni ci sono, più facoltoso era il padrone di casa.) Avrei voluto mostrarvi qualche scorcio in più del centro storico di quest'incantevole piccola Amsterdam, ma, come dice sempre mia madre in tono lamentoso, cotanta bellezza dalle foto "non reeendeee!"

La mia macchina fotografica, però, non ha fallito nell'impresa di immortalare il sinistro protagonista di un giallo fino ad allora rimasto irrisolto. L'occasione mi si è presentata inaspettata mentre stavo misurando a grandi passi l'immenso deambulatorio della Sint-Salvatorskathedraal, allegramente ignaro del fatto che di lì a poco, a distanza di una colonna, mi sarei imbattuto in una vecchia conoscenza, qualcuno che avevo già incontrato a Bruxelles ma che non avrei mai creduto di ritrovare lungo il mio cammino: il tizio con l'impermeabile. L'avrei riconosciuto tra mille, con quell'andatura lievemente lordotica e quel cappotto lungo fino alle caviglie che fa tanto pervertito o venditore di Rolex contraffatti. Era proprio lui, il sinistro figuro che avevo incrociato al Museo di Magritte e in cui ero incappato ancora una volta al Centro Belga dei Fumetti, lo sconosciuto che avevo sognato quella stessa notte e di cui avevo abbozzato persino un ritratto, il Mister X a cui Anny aveva affibbiato il suggestivo nome di Jerôme (quel circonflesso sulla "o" riproduce esattamente l'arco delle sue sopracciglia tratteggiate a china.) Quello era il terzo incontro in due giorni, o forse il quarto: appena qualche ora prima, in effetti, mi era parso di riconoscere la sua pelata lucente tra i turisti appena salpati per un giro in barca, ed ero stato tentato di saltare sulla prima bagnarola e gridare al traghettatore: "Presto, insegua quella barca!", come in un film d'azione. Poi mi sono convinto che si era trattato solo di un abbaglio, e non l'ho fatto, limitandomi a godermi il giretto sulle placide acque dello Zwin, con i cigni che, un po' seccati, ci facevano largo nel canale, mostrandoci in segno di disprezzo i loro vaporosi e candidi sederini.
Ed eccomi lì, poco dopo, nella cattedrale di Bruges, ancora una volta faccia a faccia con l'ignoto. Ero vicino tanto così dallo scoprire finalmente il segreto del tizio con l'impermeabile, i riccioli del gotico brabantino sospesi sulla mia testa come punti interrogativi. La soluzione dell'arcano era a portata di mano: aspettava solo me, dall'altro lato dell'abside. Mi sono avvicinato con non-chalance e ho capito che anche Jerôme doveva avermi riconosciuto, visto il suo sorrisetto da Gioconda. Poi è tornato a fissare la volta a crociera, la braccia incrociate dietro la schiena. L'ho inseguito con andatura da via crucis, fingendomi in preda al rapimento mistico ai piedi di una statua ogni volta che si voltava verso di me, finché non siamo usciti sul sagrato, sotto la volta cupa del cielo novembrino.

"Hai visto chi c'è? Il tipo con l'impermeabile" me lo indica mia madre, quando mi ricongiungo a lei ed Anny, ma senza perdere d'occhio Jerôme. Lo vedo avvicinarsi ad un altro uomo, occhialuto e brizzolato, che studia una mappa della città. Accanto a loro una ragazzina e un bambino, intenti ad addentare, con non poca difficoltà, un waffle straripante di panna.
"Sono una famiglia gay" è stato il verdetto di Mary, dopo aver fatto due più due.
L'aria annoiata dei due bambini, in effetti, era inequivocabile: si trattava di una famiglia. Sotto l'impermeabile, nessun sordido segreto.
Jerôme ha sussurrato qualcosa al suo compagno, ridendo, mentre il suo sguardo saettava di tanto in tanto verso di noi. Quella sfacciata di mia madre l'ha salutato con la mano, per poi puntualizzare: "Quello è un cappotto di fustagno, comunque, non un impermeabile."
In quel momento mi è crollato un mito, come quando il nostro professore di storia dell'arte ci svelò che la scarpetta di cristallo di Cenerentola, nella versione originale della fiaba, era in realtà fatta di vaio (il francese vair, "vaio", fu tradotta erroneamente come verre, "vetro.")
"Sembra un soprabito alla Charles Dickens" ho commentato, una volta ripresomi dalla delusione. "Ed è anche tutto consunto... forse l'ha rubato da piccolo, quando faceva il ladruncolo per conto di Faggin. Sono contento che abbia una famiglia ora, però."
"Mai fatto così tanto gay-watching come in questa vacanza..." ha osservato Anny, stringendosi nella sua sciarpa, mentre Jerôme e i suoi si avviavano lungo la strada che porta al Markt.
"Già... hai notato che tutti i personaggi strambi che incontriamo sono maschi? Neanche fossimo in un fumetto di Tintin..."
Il giorno seguente, svegliati dal vomitare copioso del giapponese della camera accanto (il nostro vicino Totoro doveva aver esagerato con la birra trappista), io e Anny siamo saltati dal letto pieni di entusiasmo e ansiosi di vivere nuove avventure a Gand (Ghent), ma forse saremmo dovuti essere più cauti nell'esprimere desideri, perché già il viaggio di andata si è rivelato un'odissea. Abbiamo trascorso l'intero tragitto in piedi, in un vagone strapieno, spalmati su una famiglia torinese come la salsa tonnata sul vitello. Insieme (noi e la famiglia Ferrero) abbiamo patito il caldo, la fame, la sete e infine una terribile flatulenza (PRRROT!) che si è diffusa nel vagone come una nube tossica. A rendere il tragitto più angosciante ci ha pensato il passeggero accanto a me, un ometto dai capelli sale e pepe, ma con poco sale in zucca, che sussurrava qualcosa in francese all'orecchio di un immaginario interlocutore. A  un certo punto mi ha indicato tre scozzesi in kilt, ridacchiando di gusto. "Almeno stanno più freschi" ho commentato (più che in francese, nell'argot degli zingari di Victor Hugo), provocando un altro scampanellio di risate e un grugnito di piacere al mio nuovo amico, la cui lucidità mentale oscillava quasi quanto il treno. Una volta giunti a destinazione, chissà com'è, l'etimologia della parola fiamminga bestemming ("capolinea") ci è parsa subito chiara.
La sofferenza del viaggio, però, è stata pienamente ricompensata dall'austera bellezza di Gand: le vetrate fiorite dei palazzi art nouveau, quelle gemmate delle chiese gotiche, gli altari barocchi in bianco e nero (che fanno tanto Chanel), gli intonaci delle case (rosso granato, blu oltremare, terracotta, prugna, uovo di pettirosso...), e ancora  i festoni in bassorilievo che incorniciano finestre-cammeo e le mura di mattoni, non a spina di pesce, ma guarniti da stucchi a tema marinaresco. Dalle merlature del castello o dalla cima del campanile, il Belfort, le case sembrano scatole di biscotti, tra cui i tram si snodano come trenini giocattolo in un paese da presepe. Non c'è niente di meglio di seguire il corso del Lei con in mano un cono di patatine fritte bollenti, cullati dallo sciabordio dell'acqua color ferro, mentre nel cielo livido e gonfio i gabbiani gridano notizie dal Mare del Nord...

Meno scomodi del sopraccitato viaggio della speranza, ma altrettanto proliferanti di sottobosco umano, i tragitti in metro a Bruxelles. Sulla linea che porta all'Atomium, io ed Anny abbiamo dovuto prendere posto di fronte a quella che era chiaramente una coppietta di sposi novelli, anche se non proprio giovincelli: lui, barbuto e canuto, non ha fatto altro che tubare per tutto il viaggio in tube con la sua giovane compagna, una Yoko Ono dalla risatina facile, senza trattenersi dal darle una palpatina al didietro.
Qualche stazione più in là, invece, aggrappati ai poggiamano come scimmioni alle liane, un branco di buzzurri italiani, in tuta acetata, marsupio a tracolla e scarpe di Gucci, facevano incauti commenti su una ragazza dalla chioma vermiglia, seduta davanti a loro e immersa nella sussultoria lettura di un romanzo in francese.
"Bona la Rossa" abbiamo sentito mugghiare uno di loro, malgrado lo sferragliare del convoglio.
"Guarda che l'ho vista prima io, la Rossa" ha protestato il ramapiteco accanto, reggendosi con una mano e battendosi il petto col pugno libero.
"Zitto, la Rossa è mia" ha bramito il primo, mostrando i denti al rivale.
"Non credo proprio" ha chiuso la questione la Rossa, chiudendo di scatto il suo libro.
Non so cosa ne sia stato di quei due, i tombeur de femmes, perché a quel punto le porte si sono schiuse per farci scendere: probabilmente i cascamorti saranno cascati come birilli, troppo imbarazzati per badare alla frenata. Sicuramente non sono scesi con noi. Immagino che la casa-museo di Victor Horta, il padre dell'art nouveau, non rientrasse nella lista delle loro priorità.
Non avendone più di integre, ho pensato di prendere in prestito qualche palla dall'
Atomium come supporto grafico per questa classifica dei principali motivi d'ansia
che hanno angustiato l'adorabile Anny durante questo viaggio:
1. Anny dai capelli rossi: "Oddio, ma perché con questa macchina fotografica
 i miei capelli vengono rossi?! Ma sono rossi?! Perché sembro Bree Van De Kamp?!
Ma sono veramente così rossi?!";
2. Scarpe diem: "Iiih, Raffy, guarda, quella tizia ha le Dr. Martens! Hey, basta,
me le devo comprare assolutamente! Appena torno in Italia!" (non le ha ancora
comprate.);
3. Un buon partito: "Uffa, le ragazze di qui sono molto più avvantaggiate nella scelta
del partner! Hanno statisticamente più chance di accalappiare un ragazzo carino!";
4. Fiumi di porpora: "Sento che sta per arrivarmi il ciclo...":
5. Uno sguardo dal ponte: "Madonna, che paura questi ponti! Non perché soffra di
vertigini... ma metti che mi cade giù qualcosa?"
Il momento di tornare a casa, come sempre, è arrivato troppo presto: proprio quando avevo cominciato a sentirmi a mio agio a chiedere informazioni ai passanti brussellesi. Sì, perché i miei primi approcci con gli abitanti del posto non erano stati dei più incoraggianti, come nel caso del mio incontro-scontro con lo scorbutico bigliettaio del Palais Royal. Dopo avergli chiesto se era possibile visitarlo, l'arcigno Gargamella mi ha riposto con uno stizzito: "Mais no! Il Palais Royal è aperto solo ad agosto! Août, A-G-O-S-T-O" Fossi in lui, non ci conterei molto, sul mio ritorno ad agosto. Si meritava proprio un assortimento delle migliori invettive del capitano Haddock, poeta dell'insulto: "Visigoto! Sottospecie di pitecantropo! Broccolo! Canaglia di un bashi-bazouk!", ma ci avrei aggiunto anche qualche francesismo di mia invenzione. Al momento ero così infastidito che proprio non c'ho pensato: il solito esprit de l’escalier! Neanche se gli avessi chiesto di visitare il bagno di casa sua...
A proposito di scortesia e viaggi scomodi, viaggiare con Ryanair è un'esperienza che regala sempre un certo frisson: l'impagabile brivido della deportazione. Senza contare il martellamento delle hostess-vucumprà: "Vuole acquistare un biglietto della lotteria? Le interessa una sigaretta elettronica? Oggi in offerta speciale vendiamo anche nostra madre! Esatto, la mamma di Ryan in persona!"
Non so poi chi li abbia autorizzati a scaraventare nella stiva il mio bagaglio a mano: al posto della mia tazza di Tintin, una volta disfatte le valige, mi aspettavo di trovare solo tanti tin tin tin tin tin...
 
Fin

venerdì 8 novembre 2013

Bruxelles, ma belle (capitolo primo)

Ceci n'est pas un post.

Oramai perfettamente calato nel ruolo di Tintin, reporter giramondo, vi presento qui di seguito uno scottante dossier sul mio soggiorno a Bruxelles, l'Olimpo degli eurocrati, la Capitale del Fumetto o, se preferite, la Pescheria d'Europa. Mi ci sono precipitato per portare a termine una missione diplomatica di vitale importanza: convincere Angela Merkel a lincenziare il suo personal shopper. A parte questo ingrato compito, non potevo perdermi l'occasione di fare una capatina nell'unico paese al mondo in cui puoi abbuffarti di patatine fritte (frites) con la scusa che siano un prodotto tipico. E lo stesso vale per i waffle (o meglio, gaufre), cancelletti ipercalorici sommersi da montagne di panna e torrenti di cioccolato fuso (GNAM!)I copaines de voyage che mi hanno affiancato in questa delicata impresa non erano un cagnolino bianco come la neve e un capitano ubriaco fradicio, ma tutto sommato ci vanno vicino: Anny, mia migliore amica, confidente e compagna di merende, e poi loro, l'iperattiva Mary e l'apprensivo Nick, ovvero i miei genitori. Uno degli aspetti più complessi di questa avventura è stato quello linguistico, non tanto per via del mio francese délavé o del plurilinguismo brussellese, quanto perché io e mio padre, proprio come i fiamminghi e i valloni, parliamo lingue diverse. E qui colgo l'occasione per omaggiare (indegnamente) l'arte del fumetto belga con un esempio di quelli che Anny chiama eufemisticamente "sketch di vita familiare", mentre io sono solito definirli "semi-serie lotte generazionali che si concludono quasi sempre con la parola 'ospizio' preceduta da un verbo al futuro."
* "Pisciatello" è il soprannome che Nick ha affibbiato al Manneken Pis, la statua di un putto
che fa pipì,
tra i simboli più famosi di Bruxelles. Per tradizione, i politici stranieri in visita
donano al fanciullino 
il rispettivo costume nazionale in miniatura. 
Malgrado le numerose scaramucce di questa sorta, condite di SGRUNT! e TSK! di sdegno, siamo riusciti ugualmente a visitare la città, e senza alcun patricidio o diseredazione a rovinare l'atmosfera.
Sin dalle mie prime ore a Bruxelles mi è parso di trovarmi con un piede a Parigi e con l'altro ad Amsterdam, circondati com'eravamo dal rigoglio sinuoso dell'art-nouveau e la biscottata architettura fiamminga. Il tour è cominciato, ça va sans dire, con un GULP! di meraviglia davanti alla magnifica Grand Place, quella che Cocteau definì "il più bel teatro del mondo", là dove Victor Hugo scelse la sua dimora da esule (le Pigeon), Karl Marx scrisse il suo manifesto comunista, sorseggiando un tè alla Maison du Cygne, e dove io ho intasato la memoria della macchina fotografica in neanche cinque minuti. Dal gotico dell'imponente Hôtel de Ville e della Maison du Roi, al rinascimento e al barocco, la piazza non si fa mancare davvero nulla: quando non c'è il sole, ad illuminarla e a dar vita al grigio della pietra ci pensa l'oro spruzzato qua e là su ogni palazzo.
Sia io che Anny abbiamo ammirato con particolare entusiasmo le bellezze del posto, e non solo quelle artistiche: per ogni belga particolarmente avvenente partiva in automatico un sentito "chapeau!", accompagnato dal gesto di toglierci il cappello. Per quanto ne abbia calpestata già abbastanza di terra europea sotto i piedi, mai come in questi cinque giorni in Belgio ho visto così tanta bella carne al fuoco!
Tra apparizioni divine e coup-de-foudre, camminando per la città ci si può imbattere anche in Tintin, i Puffi e tutti gli altri personaggi delle bandes dessinées, che fanno capolino dalle finestre e ciondolano per le strade solo dipinte di una seconda Bruxelles, bidimensionale e coloratissima, sovrapposta a quella vera.


Alcuni edifici storici che si affacciano sulla Grand Place, tra cui la Maison du Roi
(in alto a sinistra) e due esempi di street-art dedicati al fumetto belga.
Dopo un primo après-midi a zonzo per il centro, stuzzicati dalle vetrine delle Galeries St-Hubert (con esposti, a mo' opere d'arte, capolavori di haute pâtisserie e macarons di tutte le nuances pastello), ci siamo rintanati in un ristorantino di Rue de Bouchers per un tête-à-tête a lume di candela con un intero secchio di cozze, delizie del Mare del Nord che a Bruxelles mangiano a pranzo, petit-déjeneur e cena. La luce soffusa delle lampade di vetro colorato, le curve serpentine dei grandi specchi Liberty, il crepitare del fuoco nel camino come baci con lo schiocco (SMUAK!): in uno scenario così romantico, io ed Anny, più pettegoli di Obama, abbiamo trascorso l'intera serata ad intercettare la conversazione in corso al tavolo vicino, quella (in inglese) tra un ciarliero danese, sulla cinquantina, stempiato, ma ancora piacente, e il suo amico, un atletico belga di cui siamo riusciti a vedere solo l'ampia schiena. Sembrava si fossero conosciuti da poco, perché quella del danese era sicuramente una parlantina nervosa, in più era paonazzo e faceva uno sforzo evidente per mantenere il contatto visivo col suo giovane interlocutore.
"Raffy, ma secondo te...?" comincia Anny, dopo qualche minuto di attenta osservazione.
"Sì, anche secondo me..." rispondo, mandando giù un sorso di birra lambic alla ciliegia.
"Sarà il loro primo appuntamento..."
"Sì, il danese ha ordinato le ostriche, e si sa che sono afrodisiache..."
"Ma che c'entra?!" protesta Anny, ridendo. Poi, dopo aver spezzettato un po' della sua baguette nel potage des légumes, aggiunge: "Il danese comunque è sicuramente..."
Ci scambiamo uno sguardo sornione, la fiamma della bugie si riflette negli occhioni verdi di Anny, e subito dopo le nostre voci si accavallano: nello stesso istante lei sussurra "serratura" e io "chiave."
E con "chiave" e "serratura" alludiamo non troppo velatamente ai ruoli che quei due potrebbero interpretare una volta calato il sipario delle braghe.
"Non so..." pondera Anny, dubbiosa. "E' che il belga è così muscoloso..."
"Credo dovremmo trovare un double-entendre un po' più elegante di 'chiave' e 'serratura', comunque..."
"Che confabulate voi due?" si intromette mia madre, riemergendo dal suo piatto di waterzooi (sembra il nome di un batterio o di un parco acquatico, ma è solo pollo in salsa alla panna.) "Chiavi e serrature? Cercate un ferramenta?"
E qui si vede da chi ho preso l'abitudine di ficcanasare...
"Certo che no, delfina curiosa, parlavamo di un quadro di Magritte che probabilmente vedremo domani al museo" improvviso. "Sono simboli ricorrenti nella sua pittura, non lo sapevi?"
Mary manda giù un sorso d'acqua, ma, a giudicare dal suo sguardo di divertito rimprovero, non se l'è bevuta.
Segue un momento di meditabondo silenzio (MUMBLE MUBLE), in cui le voci della coppia novella sono coperte dal CLANG! delle posate, il CRUNCH! delle bocche masticanti, lo SLURP! delle vongole risucchiate, gli HIC! di chi ha bevuto troppo e il BLA BLA generale.
"Comunque anche tra Tintin e il capitano Haddock c'è del tenero, per me" sentenzio in un sussurro all'orecchio di Anny, dopo essermi tamponato la bocca col fazzoletto. "E' la classica accoppiata erastès/eròmenos, un po' come Batman e Robin..."
Immemori della tragica fine delle "ostrichette curiose" (per quanto fossimo circondati dai frutti di mare), abbiamo continuato a studiare, con interesse puramente etologico, i rituali d'accoppiamento dei due piccioncini. Vorrei potervi dire che la nostra attività di flâneur vacanzieri si sia conclusa qui, ma sono stati molti altri, invece, i tipi umani che sono passati sotto la nostra lente d'ingrandimento.
Il giorno dopo, per esempio, nell'ala dei Musées Royaux des Beaux-Arts dedicata a Magritte, ovunque mi girassi mi ritrovavo sempre vis à vis con uno strano individuo che sembrava essere uscito da un albo a fumetti, se non dal pennello di un pittore surrealista: calvo, con gli occhietti spioventi, gli occhiali tondi e un sorrisetto lievemente beffardo, attirava l'attenzione soprattutto per il suo impermeabile écru, lunghissimo, praticamente raso terra, con una mantellina cucita sulle spalle, che frusciava a ritmo lento del suo incedere per le stanze dipinte di nero...

René Magritte (1898-1967), tra i maggiori esponenti del Surrealismo, è
definito un saboteur tranquille: insinua dubbi sul reale mostrando realtà plausibili
solo per l'osservatore distratto. La sua è una razionalità talmente ingenua da risultare
disarmante: dipinge una pipa, nega che lo sia e, a fronte delle obbiezioni
, risponde così,
 in tono quasi scocciato: "Chi potrebbe fumare la pipa del mio quadro?
Quella lì non è una pipa." In copertina, la silenziosa rivoluzione de L'impero delle luci,
in alto a sinistra I compagni della paura, in alto a destra Il ritorno (quello al nido materno
o quello della biblica colomba della pace?), a sinistra Sherazade, in basso a sinistra
Il donatore felice e in basso a destra La corda sensibile, un'opinabile lezione di fisica. 
 
Qualche ora più tardi, quello stesso pomeriggio, sotto il tetto di vetro del Centro Belga del Fumetto, mi ero già quasi dimenticato di lui e davo per certo che non l'avrei mai più rivisto, quando mio padre richiama delicatamente la mia attenzione, con una gomitata: "Guarda, c'è il tipo con l'impermeabile che abbiamo visto al museo di Marmitte..."
GASP! Riecco il pittoresco figuro, che mi passa davanti, con le braccia perennemente conserte, la pancia prominente e sempre avviluppato nel suo soprabito da maniaco sessuale, mentre mi sorride come a voler dire: "Ou la la, quant'è piccolo il mondo!" Poi, prima che possa chiedermi se sia il caso di fargli un cenno di saluto o no, si ricongiunge, mormorando qualcosa in francese, ad un gruppetto di persone nascoste alla mia vista da un cartonato di Lucky Luke in groppa al suo destriero.
Mi ci imbatto ancora una volta poco dopo, tra gli scaffali del book-shop, e ne approfitto per lanciargli qualche altra occhiata sospettosa, ma poi, quando se ne accorge e mi sorride, mi affretto ad affondare la faccia in una copia tenuta al contrario di Tintin in Tibet.
Non so perché queste coincidenze mi abbiano tanto turbato, né perché mi sia arrovellato per ore chiedendomi quale fosse la sua storia. A quest'ora sarei di certo scivolato nella follia se, poco dopo, non avessi trovato le risposte che cercavo.
Ma il segreto che si cela sotto il suo cappotto verrà rivelato soltanto nel prossimo post...
Intanto non potevo immaginare che altri due misteri, forse anche più inquietanti, attendessero me ed Anny in albergo: come connetterci alla rete wi-fi e perché un gruppetto di giapponesi sostasse perennemente nel salottino davanti agli ascensori.
Ci abbiamo messo due giorni per capire che ognuno di questi angoscianti interrogativi era la soluzione dell'altro: il wi-fi funzionava solo negli spazi comuni, e si sa, dove c'è tecnologia, ci sono i giapponesi (oltre che i gremlins). Alla fine io e Anny ci siamo ritrovati a dividere la poltrona con uno di loro, un musone perfettamente a suo agio in infradito e pigiama a quadrettoni bianchi e blu. Per quanto ipnotizzati dagli schermi dei nostri cellulari, non abbiamo potuto evitare di fare le nostre considerazioni sugli incontri del terzo tipo che possono verificarsi anche a notte fonda nei labirintici corridoi di un albergo, tipo l'ambiguo via-vai di due possenti culturisti in striminziti completini ginnici, che si saranno inseguiti per tutta la notte senza mai trovarsi. Ci mancava solo la sigla di Benny Hill: quando uno usciva dall'ascensore, l'altro aveva già svoltato l'angolo e sceso le scale. "Per me giocano a nascondino, oppure si mandano messaggi su WhatsApp ma non li ricevono perché il wi-fi non funziona" ha ipotizzato Anny, per poi prendere a scimmiottare il vocione testosteronico dei body-builder: "Aò! Io sto ar quarto piano... tu 'ndo'stai?"
Affascinati dalla vita notturna dell'hotel, dopo una serata di baldoria, abbiamo deciso di riservare le ultime ore della Notte delle Streghe all'esplorazione dei sentieri di moquette del albergo. Naturalmente, memori dell'abbigliamento sfoggiato dal nostro amico, il geek nipponico, ci siamo adeguati al dress-code del popolo della notte: pigiama a fantasia scozzese ed imbarazzanti ciabattine di spugna bianca. Anny, decisa a tutelare la sua vera identità, si è persino fatta la coda al lato, assicurandomi che non c'è modo migliore di spacciarsi per spagnola.
Ci aspettavamo di "vederne di ogni", e invece... calma piatta. Com'era prevedibile, dalle interminabili file di porte numerate non proveniva altro che uno ZZZ... comatoso, qualche RONF RONF e ogni tanto lo SWOOSH di uno sciacquone. Messa una croce sul sesto e quinto piano, al quarto finalmente abbiamo trovato musica per le nostre orecchie. Una combriccola di italiane di mezza età, riunitesi sui divanetti della lobby per due chiacchiere al riparo dalle orecchie foderate di pelo dei mariti, si sono lasciate ingannare dai nostri travestimenti, sicure del fatto che un italiano non avrebbe mai osato girovagare per l'hotel in pigiama e pronte a mettere la mano sul fuoco che una ragazza italiana non avrebbe mai rischiato di farsi vedere in pubblico con una coda al lato. "Una mia amica l'ha provata... la pillola rosa" ha ammesso, ignara di essere ascoltata, la più brilla del gruppo, sghignazzando per mascherare l'imbarazzo. Io e Anny abbiamo attraversato in un lampo l'atrio, sforzandoci di pensare alla disoccupazione giovanile pur di non scoppiare in fragorose risate.
"Ma che ha detto? L'ha provato lei, il Viagra pour femme?" chiede Anny, una volta al sicuro nella tromba delle scale d'emergenza, ancora scossa dalla ridarella.
"No, una sua amica..." rispondo, ansimando. "Cioè lei."
Insieme abbiamo convenuto che era valsa la pena perlustrare l'edificio anche solo per aver captato queste scabrose confidenze alla Sex and the City. Quindi ci siamo decisi ad andare a letto, anche perché molti ospiti ci avevano già visto vagare in déshabillé per sette piani, perciò probabilmente saremmo a nostra volta finiti tra gli aneddoti divertenti di qualche altro blogger. Stavamo tornando in camera, al quinto piano, ancora con le lacrime agli occhi, quando dalla 216 si è levato lo spettrale lamento di un ragazzo, raggelandoci...
All'inizio pensavamo avesse mangiato cozze avariate, poi abbiamo capito che stava solo cantando Lana Del Rey sotto la doccia: "Kiss me hard before you go... summertime saaadneeees!"
Né io né Anny, comunque, ci siamo mai sognati di giudicare le scelte idraulico-musicali di chicchessia, visto che sotto la doccia noi cantavamo l'unica vergognosa canzone in francese di cui conosciamo più o meno a memoria il ritornello. Ricordate Alizée, la ragazza acqua e sapone che nel 2000 cantava Moi... Lolita? Be', probabilmente pochi di voi l'avranno vista ancheggiare con un pesciolino rosso cucito sulla chiappa e sentita vantarsi di avere "la pelle liscia, nel suo bagno di schiuma." J'ai la peau douce, dans mon bain de mousse...

Potete ammirare il pesciolino al minuto 03.06

À suivre...

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