venerdì 5 settembre 2014

Gente di (passaggio a) Dublino


"Non c'è tradizione da cui trarre più motivo d'onore e che meriti di essere conservata con più gelosia dell'ospitalità" irlandese, proclama nel suo vanesio discorso il protagonista de I morti, l'ultimo racconto di Gente di Dublino. La vista di due ragazzi che vengono immobilizzati e portati via in manette dalla polizia proprio difronte al mio albergo in Temple Bar, però, non è esattamente il caloroso benvenuto che mi sarei aspettato. Sulle prime questo vivace e pittoresco quartiere mi è sembrato essere non poi tanto più rassicurante di quello che era un tempo Temple Bar: un ritrovo di frequentatori di postriboli e altri personaggi poco raccomandabili. Ma mi convinco ben presto che è solo per via dell'ora tarda. L'atmosfera, dopotutto, per quanto sopra le righe, è festosa: le menti più brillanti (e brille) del Trinity College e giovani turisti in cerca di divertimento si scatenano indistintamente ora al ritmo pop che pompa dai locali alla moda, ora a quello di gaie gighe irlandesi dei bei tempi andati, suonate con brio in qualche pub tradizionale, di quelli con il nome a caratteri dorati sul legno dipinto e gli ingressi rigurgitanti di fiori. A risuonare, però, è soprattutto l'arpa, quella impressa sulle lattine di Guinness. Nel bel mezzo della strada, tra un tizio che fa pipì all'angolo del negozio di attrezzatura da pesca di Rory e la vetrina ingannevolmente illuminata della bottega delle caramelle di zia Nellie, una coppia pomicia indisturbata. In realtà non sarebbe corretto dire che pomicino: più che altro poggiano il peso del corpo sulle labbra dell'altro e restano così, immobili, a sbarrarmi la strada. La ragazza, a giudicare dalla lunghezza esigua della gonna, sembra totalmente insensibile al freddo, mentre lui poggia la mano, forse per riscaldarla, sul maglioncino di lei, giusto in corrispondenza di un seno. In effetti lo tiene ben saldo in mano, lo impugna come il pomello di una porta, come a dire "tranquilla che te lo reggo io." Non so per quanto tempo intendano rimanere lì, paralizzati, muovendo solo ritmicamente le labbra, come quei pesci pulitori con la bocca premuta a ventosa sul vetro degli acquari. Basterebbe anche solo considerare questo modo statuario di amoreggiare per dare ragione a James Joyce, che definisce Dublino come "il centro della paralisi."
Io che mi sento sempre diviso tra desiderio di fuga e incapacità di agire, mi chiedo se Dublino sia davvero e/o sia ancora la trappola senza via di uscita che il suo più celebre cittadino descriveva nei primi racconti. Alcune norme del prestigioso Trinity College farebbero quasi pensare di sì: c'è un edificio-dormitorio che non può in alcun modo essere modificato né godere delle più moderne tecnologie quali una caldaia decente, per questo non è raro sorprendere studenti e professori uscire all'aperto in accappatoio per raggiungere le docce.
Altro perfetto esempio di immobilità sono il gatto e il topo rimasti incastrati due secoli fa in una canna dell'organo di Christ Church. Le mummie di questi Tom e Jerry ottocenteschi sono ancora oggi in bella mostra, giusto davanti alla caffetteria della cripta, come se bere un tè e addentare un muffin al doppio cioccolato nel buio di una cripta non faccia già abbastanza allegria.
 
Dettaglio dell'imponente Long Room, nella Old Library del Trinity College,
che conserva preziosi miniati irlandesi come il decoratissimo Libro di Kells.
Completano la santa trinità delle biblioteche dublinesi la piccola ma antica
Marsh Library e la National Library, dall'enorme volta color acquamarina
e i candidi putti, in cui è ambientato un episodio dell'Ulisse di Joyce. Meritano
anche le meraviglie orientali della Chester Beatty Library, nel complesso
del Castello di Dublino. 
Eppure, di pomeriggio, passeggiando per i negozi di Grafton Street, Dublino mi appare piena di vita e tutt'altro che deprimente. I cantanti di strada non sono eccessivamente lagnosi e non vedo nessuna ragazza trasandata che si trascini  dietro un'aspirapolvere rotta per tutto il centro come in Once. Ma nello spensierato viavai di passanti, c'è qualcuno che resta indietro. Proprio all'inizio di Grafton, un adolescente schiaccia un pisolino rannicchiato per terra, all'ombra di un lampione grondante di gerani rosa e petunie viola. Viola come la giacchetta a vento in cui si stringe. Mi sento quasi in colpa per questa osservazione puramente estetica. Ma forse, più dell'abbinamento di colori, ciò che mi colpisce è che a casa abbia lasciato una giacca praticamente identica. Forse portiamo anche la stessa taglia.
Ha ancora lo zaino sulle spalle, gonfio come la casa-carapace di una tartaruga. Credo proprio che stia dormendo, il viso rosso di acne contratto in un'espressione imbronciata e i capelli biondi appena mossi dall'aria pungente. Alle sue spalle si addensa una coperta grigia di nuvole sugli alberi di St. Stephen's Green. Pochi centimetri più in là, due bucce di banana leopardate sono allineate l'una accanto all'altra con cura superflua.
Intanto un ragazzo sulla trentina, alto, coi capelli scuri e il ciuffo leggermente appuntito si guarda intorno con aria preoccupata. Lo vedo lanciare brevi ma ripetute occhiate apprensive al giovane addormentato. Gli gironzola intorno, esitante, le mani infilate nelle tasche della giacca di pelle, finché non si decide a picchiettargli su una spalla. Il ragazzino apre gli occhi verde chiaro, gli dice qualcosa, forse un'imprecazione, o magari mugugna "Ancora cinque minuti..." Molto più probabilmente lo invita solo a farsi gli affaracci suoi. Poi richiude gli occhi. Il volto è duro, quasi superbo nella sua malinconia: "Sì, sto dormendo sotto un lampione, e allora?"  Non avrà più di vent'anni.
Un po' turbato dalla scena, proseguo per la mia strada, finché la vescica gonfia non mi offre un pretesto per tornare indietro in direzione del centro commerciale. Quei due sono ancora lì. Il ragazzino continua a sonnecchiare sotto il lampione fiorito. L'altro non si è allontanato, sembra cercare ancora con lo sguardo qualcuno che lo aiuti a far ragionare quello sbarbatello lì, steso sulla strada, in pieno pomeriggio, mentre una folla di curiosi si accalca attorno a uno spettacolo di break dance. Poi gli dà un altro colpetto sulla spalla. Le sue sono solo preoccupazioni da buon samaritano, oppure quei due si conoscono?
La mia capacità vescicale a questo punto non può assecondare ulteriori speculazioni, e corro su per i tre piani del centro commerciale: fatto interamente di vetro e ferro dipinto di bianco, sembra quasi una vecchia stazione, con un grande orologio a ricordare agli acquirenti che il tempo è denaro. Quando torno in strada, dopo essermi soffermato un po' troppo a scattare fotografie, scopro che sono spariti entrambi.
 
Dettaglio di Grafton Street.
La mattina dopo, risalendo per Nassau Street si raggiunge Merrion Square, dove il tempo sembra essersi fermato all'età georgiana. In fondo a una schiera di lucide porte laccate, tutte sormontate da lunette, se ne apre una dipinta di nero. E' quella di un hotel di lusso, da cui spunta fuori un vecchietto, tutto impettito nella sua divisa da facchino, color tortora, con due file di bottoni dorati che gli scivolano dalle spalle. L'ometto scende con piede malfermo i gradini e zoppica verso i nuovi ospiti, appena smontati da un taxi. Poi consegna i bagagli al suo collega più giovane, che gli zampetta dietro col cappellino sulle ventitré, mentre sopraggiunge a grandi falcate un altro buffo signore, nero come un corvo, in redingote e lustro cappello a cilindro. Non troppo lontano, oltre le fronde del parco, dalla roccia su cui è languidamente adagiato, un sempre elegantissimo Oscar Wilde sorride sghembo rivivendo chissà quale marmoreo ricordo.
 
Tipiche facciate in stile georgiano.
Per un esteta come Oscar Wilde non potevano realizzare statua commemorativa
più bella, un capolavoro di geologia applicata alla scultura: la giacca è di giada
canadese, i polsi e il colletto di thulite rosa, i pantaloni di larkivite norvegese,
mentre le scarpe e le calze sono di granito nero indiano. In mano regge un fiore
di pietra viola scuro che non sono riuscito a identificare.
Poco più tardi, dopo uno scroscio di pioggia, ritornando sull'acciottolato bagnato (questa volta d'acqua piovana) di Temple Bar, può anche capitare di inseguire con gli occhi un giovanotto distinto in bicicletta, i capelli chiari schiacciati sotto una coppola beige e il cappotto di tweed in tinta che gli svolazza dietro. Sembra pedalare direttamente dalle pagine di Joyce, per poi attraversare Eustace Street e sparire nella penombra di un ristorante persiano. Oltre le vetrine, incorniciate di legno verde scuro, ricambia per un istante il mio sguardo. Mi sono sempre piaciuti, quegli occhi che sembrano avere un po' tutti qui, nei paesi dal cielo grigio: liquidi, come se dovessero scivolare giù in una lacrima. E quel rossore acquerellato sulle guance, arabesche di capillari che paiono dipinte da un miniaturista medievale.
La volta del cielo torna a incupirsi mentre gli uccelli assediano gli archi a parentesi graffa del piccolo Ha'penny Bridge, da cui qualcuno sta lanciando del pane raffermo. I gabbiani schiamazzano, s'accapigliano, si prendono a beccate e si tuffano in picchiata verso l'acqua grigia del fiume. I cigni invece si tengono a distanza: non sembrano disposti a compromettere la loro dignità per una manciata di briciole. A loro nessuno può torcere una piuma dai tempi del mitico re Lir: i suoi figli, vittime della maledizione dell'invidiosa matrigna Aoife, furono trasformati in cigni per novecento anni, riacquistando sembianze umane solo in corrispondenza della cristianizzazione dell'Irlanda. Troppo deboli per stare al mondo, morirono tutti, ma non prima di essere stati battezzati da San Patrizio (che ha la fastidiosa abitudine di imbucarsi in quasi ogni leggenda celtica.)
 
Il Liffey Bridge, meglio conosciuto come Ha'penny Bridge per l'antico
pedaggio di mezzo penny.
 
 
Sull'altra sponda del Liffey, proseguendo sul lungofiume, in parallelo con Bachelor Walk ("La Passeggiata dello Scapolo") si arriva all'ariosa O'Connell Street. L'appuntamento con Joyce è in Earl Street North. E infatti eccolo lì, immobile, col suo bastone e le gambe incrociate, il viso rivolto verso l'alto. Anche lui "moriva dal desiderio di salire in cielo [...] e di volare verso un altro paese dove non avrebbe più sentito parlare dei suoi guai", e ci riuscì.
Quella di sognare la fuga, in fondo, non è affatto una prerogativa dublinese. Penso a mia madre, che ancora prima di tornare a casa da un viaggio, è già in partenza con la mente verso la prossima destinazione. Quanto a me - non ricordo se è successo a Dublino, o prima di arrivarci, o se mi sia lasciato suggestionare da quella frase di Pensione di famiglia -,  ho sognato di levitare a pochi centimetri da terra e poi, con una spinta delle gambe, schizzare in alto, quasi sfiorando le mura della cattedrale normanna del mio paesino di provincia, svolazzare incerto intorno alla vetta e infine sparire lontano. Quando mi sono svegliato ero nella mia stanza - che sia la mia o una camera d'albergo non importa -, ma ancora pima ero nella scatola del mio corpo, che a sua volta è dentro una scatola un po' più grande, quelle quattro mura attorno a me, che a loro volta sono dentro una scatola più grande, l'intero edificio, e così via, il quartiere, la città, fino al coperchio del cielo.

Illustrazione di Roman Muradov ispirata all'Ulisse di Joyce

9 commenti:

  1. Tu invece lasci me completamente paralizzata per quanto scrivi bene.
    Baci, piccolo Joyce :*

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  2. Bellissimo! Aspettavo con ansia questo post e sei riuscito comunque a sorprendermi citando la ragazza con l'aspirapolvere rotto di Once e il Manoscritto di Kells ( meno male che non sono l'unica a conoscere queste cose). Vorrei farlo anche io un viaggio da quelle parti!

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    1. Sono contento che ti sia piaciuto e ti abbia sorpreso! :) È un post un po' diverso dal solito, più intimistico... ho visto molto più dei luoghi che ho citato, ma ho pensato fosse inutile elencare attrazioni che si trovano facilmente su una guida turistica. Attendo di scoprire le tue impressioni su Dublino :)

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    2. Siamo entrambi fan dei coniglietti psicotici dei miniaturisti medievali... immaginavo fossi interessata anche al libro di Kells :P :D

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  3. Sei riuscito a farmi viaggiare con te in modo autentico. Complimenti

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  4. Che belle foto. Adesso ho ancora più voglia di andarci...

    Te le sei scolate un paio di Guinness?

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    1. Grazie! :)
      La Guinness l'ho assaggiata, ma non amo la birra ;)

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