giovedì 14 giugno 2012

"Coco avant Chanel": tessere col filo del proprio destino

Martedì sera ho tradito il mio grande amore: ho preferito i Filmissimi di Rete Quattro alle frivolezze di Real Time. Ne è valsa la pena, però: non ho resistito a Coco avant Chanel, che mi ero malauguratamente perso al cinema.
Il titolo già avverte: siamo lontani dalla Coco Chanel stilista di successo, col suo collier di perle e il tailleur in tweed bianco e nero. Chi, d'altronde, non conosce i suoi trionfi e le sue geniali intuizioni? Cos'altro aggiungere della mai dimenticata Chanel stilista? L'inventrice del tubino (l'indispensabile petit robe noire), della tracolla matelassée e dello stile à la garçonne? La costumista della società moderna? Colei che ha abilmente ricucito l'immagine donna, restituendole libertà e dinamismo, strappandole di dosso ogni orpello e costrizione, per risalire all'essenza androgina dell'eleganza?
In Coco avant Chanel si scostano i veli della fama per conoscere la donna dietro il mito. Nelle primissime scene la vediamo nelle vesti mortificanti di un'orfanella abbadonata dal padre, ma le trame oscure della sua giovinezza dickensiana cominciano già a intrecciarsi con l'ordito del suo genio. Solo partendo dalla sua vita, straordinaria e malinconica, si può comprendere come Chanel abbia confezionato le sue creazioni riprendendo direttamente le fila del suo destino. Ogni esperienza, ogni incontro, ogni viaggio si è unito in un armonico patchwork: le ignare suore dell'orfanotrofio le hanno ispirato l'amore per il rigore estetico e per il bianco e il nero, i guardaroba dei suoi amanti le hanno concesso generosamente abiti maschili da tagliuzzare e adattare al proprio corpo, e i pescatori inglesi, con le loro pratiche tute di jersey, hanno avvalorato ai suoi occhi la possibilità di un connubio tra comodità e fascino, quotidianità ed eleganza.
Sagace la scelta di soffermarsi sul periodo "oscuro", i suoi anni giovanili, in modo da ricostruire fibra per fibra l'intrico di una simile personalità: lo sguardo tenebroso e ardente di un'ispirata Audrey Tatou da espressione all'orgoglio, alla fierezza, alla fragilità e alla brama di indipendenza di Gabrielle Chanel, che, lasciato il tetro collegio, passa alle sartorie e ai caffè concerto, dove si esibisce cantando probabilmente le più brutte canzoni mai scritte in lingua francese (ascoltare per credere), come Qui q'a vu Coco, a cui deve il vezzoso soprannome. Quasi tutta la pellicola, però, si allarga lungo i sei anni di dorata prigionia trascorsi nella tenuta del suo primo amante, Balsan, dove vive come "una selvaggia rinchiusa in un castello", ostinata padrona di casa e ospite ectoplasmatica. Eterna amante e mai moglie.
Funestata da lutti e delusioni, la vita di Chanel ripropone un antico dilemma: si può essere straordinari e felici? Sembrerebbe di no, almeno per lei, che sconta talento e successo con la sofferenza...
Ma è vero anche il contario: è la sua arte e solo l'arte a ripagarla dal dolore, quell'arte che la porterà lontano, permettendole di abbattere ogni barriera, prima di tutte quella del tempo.
Splendida immagine-simbolo è la scena del ballo al casinò, che la vede danzare con l'amatissimo Boy. Spicca tra la folla in movimento con il suo sobrio abito nero, circondata da damine bianche e infiocchettate che volteggiano nel passato, mentre lei raggiunge per prima il futuro, a passo di valzer.

2 commenti:

  1. Mi è piaciuta la tua analisi; come sempre, la trovo interessante e calibrata, con buoni spunti di riflessione. Mi è venuta voglia di rivedere il film. *_*

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    1. Ti ringrazio, lietissimo che ti sia piaciuta! *___*
      Avevo sentito pareri negativi sul film... invece mi ha sorpreso in positivo!

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