![]() |
Leonardo DiCaprio brinda in onore de Il Tè, che oggi festeggia il 100° post. Grazie a tutti per il vostro sostegno! |
Eppure nessuno ha avuto il coraggio di dire che Carey Mulligan (la ridacchiante Kitty di Orgoglio e pregiudizio), scelta per impersonare la trasognata, evanescente Daisy, è oltremodo... brutta, almeno per quest'epoca. Quando la coppia Buchanan fa la sua prima apparizione, più che dinanzi a Tom e Daisy sembra di trovarsi al cospetto di Tom e Jerry. Più di una scena, in effetti, potrebbe benissimo avere impresso il marchio Hanna-Barbera: mi riferisco alle improbabili gare automobilistiche degne di Wacky Races - Le corse pazze, e ancora - perdonate l'accanimento - alla faccia da Braccobaldo bastonato della Mulligan. Tobey Maguire, poi, che ha ben poco dell'intellettuale Nick Carraway, ci costringe a sopportare l'espressione intrinsecamente ebete del suo viso. Joel Edgerton e Isla Fisher rendono giustizia ai personaggi di Tom e Myrtle, mentre è mortificato, a vantaggio dei protagonisti, il ruolo di Jordan Baker: Elizabeth Debicki, che ne veste i panni luccicanti, per tutto il tempo non fa altro che sgranare gli occhi come Betty Boop.
Insomma, difficile non alzare il sopracciglio durante la prima mezz'ora di pellicola, tutto enfasi visiva, spreco di 3D come se non ci fosse un domani, sincretismo musicale e sfavillio disneyano: un giro mozzafiato sulle montagne russe di una New York artefatta e patinata. In realtà, però, Luhrmann si limita a seguire le mosse dello stesso Gatsby: l'esordio ha tutta la frenesia e l'impazienza di un uomo che ha aspettato per anni di rivedere la donna che ama, e tutta l'opulenza e la fastosità (ben oltre il limite del kitsch) di chi non chiede altro che essere notato. Feste e baccanali, tuttavia, non riescono a riportare Daisy tra le braccia del suo vecchio amore. Per quello basterà un tè, in cui Gatsby potrà togliere la maschera di re Mida e mostrarsi in tutta la sua vulnerabilità. E' a questo punto che il ritmo della narrazione rallenta, che lo spettatore può riprendere fiato e vivere le lunghe notti insonni di Gatsby, esplorare l'estrema solitudine che circonda ogni sognatore.
Come già con Shakespeare in Romeo + Juliet, Baz Luhrmann dialoga, in modo del tutto originale e personale, col testo letterario. Il suo approccio è stato frettolosamente bollato come ridondante, didascalico, ma può considerarsi una colpa l'aver voluto includere Fitzgerald nel cast?
Al film forse manca l'eleganza che contraddistingue la prosa dello scrittore, quella volatilità che sembra ispirarsi alla brezza notturna dell'estate sulla East Coast, ma il regista controbilancia aggiungendo tutto il pathos di Moulin Rouge!
Non si può pretendere che un capolavoro della letteratura passi perfettamente intatto, così com'è, dalla penna di Fitzgerald allo schermo, senza fare i conti con la personalità di Luhrmann, col suo genuino, quasi infantile, entusiasmo (forse immortalato nel costante stupore di Maguire) e il suo innato senso del tragico. E' un lavoro che, lungi dall'essere perfetto, rimane comunque seducente.
Leonardo DiCaprio è ineccepibile nel ruolo di Jay Gatsby, il novello Icaro, che "mira in alto", fatalmente attratto dalla luce verde del pontile di Villa Buchanan, l'esca fluorescente di un mostruoso pesce degli abissi. Il bagliore che lo blandisce, verde come la speranza e il denaro, è l'amore di Daisy, il successo, la ricchezza, il prestigio, l'ambizione titanica del self-made man. Da qui l'insistenza sulle distese d'acqua che separano lembi di terra, l'acqua che è tanto simbolo di distanza, quanto di mutabilità, possibilità di cambiamento, di quella liquidità sociale in cui Gatsby spera di confondersi per poter entrare a far parte, finalmente, del mondo di Daisy. Da qui il continuo spostarsi dello sguardo da una riva all'altra, l'immagine frustrante di un sogno lontano eppure perfettamente visibile all'orizzonte, in modo quasi derisorio.
L'identificazione tra Daisy e il sogno americano è suggerita dalla sua stessa sirenesca voce, che Fitzgerald descrive con parole indimenticabili: "... il tipo di voce che le orecchie seguono come se ogni parola fosse un arrangiamento di note che non verrà mai più suonato. [...] c'era un'eccitazione nella sua voce che gli uomini che l'avevano amata facevano fatica a dimenticare: un irresistibile desiderio cantato, un 'ascoltami' bisbigliato, una promessa che le cose allegre ed eccitanti che aveva appena fatto le avrebbe rifatte di lì a poco." E ancora, "la voce di Daisy è piena di soldi", un'inesauribile cornucopia di promesse splendenti.
Ma in verità Daisy è troppo fragile per capire chi vuole essere, e men che meno è capace di cucire su Gatsby l'identità che lui stesso vorrebbe per sé, l'io che vorrebbe poter comprare come un costoso completo su misura.
Gatsby annega come Leandro, solo nel buio, privato del conforto e della guida di quel faro verde, fiaccola lasciata estinguersi da un'Ero egoista. I ricchi come Daisy e Tom sono "gente sbadata", "rompevano le cose e persone e poi si ritiravano nei loro soldi e nella loro enorme noncuranza o qualunque cosa fosse che li teneva insieme, e lasciavano che fossero altri a pulire lo sporco che lasciavano..."
Il sogno americano rivela tutta la sua ipocrisia: i primi coloni videro nel nuovo continente una terra di infinite possibilità e libertà sconfinata, ma finirono con arroccarsi in nuovi castelli, scimmiottando l'aristocrazia europea e riproducendo la rigida gerarchia sociale da cui erano fuggiti. Tutti, come Gatsby, inseguiamo il futuro sperando di spingerci così avanti da tornare al punto di partenza. Facciamo rotta verso l'ignoto Ovest per raggiungere la vecchia India, e "così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato."
A differenza di Fitzgerald, però, Baz Luhrmann fa un ultimo regalo a quest'uomo dall'eccezionale propensione alla speranza: Gatsby precipita inesorabilmente, ma cade felice, stringendo in mano l'illusione che, alla fine, Daisy lo abbia (chi)amato.