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giovedì 7 agosto 2014

Julie Shore

"Quello che succede in Salento rimane in Salento."
Ventitré anni e non sentirli. Nel senso che, bisbetico e pantofolaio come sono, comincio a pensare di non essermi mai sentito veramente giovane in vita mia. Per questo io e la amica Anny, poco giorni fa, dopo aver rimesso a posto la scatola di Scarabeo, abbiamo deciso di fare almeno un tentativo e provare a comportarci come i nostri coetanei. Così abbiamo fatto i bagagli e siamo partiti per un week end lungo in puro stile spring break, nella speranza di ritrovare i ventenni scatenati nascosti in noi. Ad accompagnarci in questo viaggio nell'anima in stile bevi-flirta-ama non potevano mancare una coppia che di divertimento se ne intende: la nostra esuberante amica Betulla e il suo ragazzo Alex. Destinazione: la romantica, scricchiolante villetta gentilmente messa a disposizione da mio zio, il Cosmopolita, in quel paesino del Salento di appena trecento anime che è Giuliano (per gli amici, Julie.) Inizia con queste premesse l'avventura di Julie Shore, una vacanza che sarebbe potuta benissimo essere un reality trash di quelli che trasmettono su MTV, di cui abbiamo scoperto essere tutti segretamente spettatori assidui.



Betulla, da sempre camaleontica in fatto di capelli, per l'occasione ha tinto la sua chioma dell'esatta tonalità di rosso sfoggiata da Holly, quella con le "tette enormi", nonché la più "accogliente" dei tamarri di Geordie Shore. L'unica ad essere biasimata per non aver mai visto neanche un episodio è Anny, che non ha voluto rinunciare al suo stile "da VIP" e alla sua paglietta, accessorio che le è subito valso il titolo di "Contessa."
La giornata di un Julie inizia alle sette, con un'imprecazione rivolta alle campane che rintoccano a festa dalla chiesetta vicina. Così vicina che l'acqua del rubinetto della cucina scorre direttamente dalla fonte battesimale. All'incirca un'ora dopo questo rintronante risveglio (durante i quali tutti, tranne me, sono riusciti a riprendere sonno), ci riuniamo per la colazione in giardino all'ombra della buganvillea: l'unica già pimpante, anche senza caffè, è ovviamente Betulla, che attraversa la tendina e ci regala il suo "Buongiorno!", con tanto di plateale gesto delle braccia, come a dire "ta ta, eccomi qua!"
Dopo aver vagheggiato il mare per metà estate, finalmente i miei piedi toccano la sabbia rovente. I riflessi del sole sulle onde sembrano ammiccare proprio a me, ma il primo a tuffarsi è Alex, fresco di lezioni di nuoto, che non appena entra in acqua regredisce allo stato infantile: inforca gli occhialini - che fanno sparire i suoi occhi a mandorla - si tuffa a bomba e inizia a mettere in moto i piedi, trafiggendoci con mille schizzi di acqua ghiacciata. Contagiato dal suo entusiasmo, mi metto in testa di insegnargli il delfino, che non rientra esattamente nel livello principiante. E infatti tutto ciò che riesce ad eseguire è lo stile "a schiaccianoci", con chiusura a scatto del bacino. Gli riconosco però il merito di aver fatto bracciate da gigante in pochissimi giorni, grazie all'esercizio e ai miei consigli personalizzati: "Alex, voglio un movimento più sinuoso, serpentiforme... un brivido che parte dalla testa e corre fino alle punte dei piedi... fai come la Tatangelo, devi sentirti una muchacha troppo sexy, che non dà troppa confidenza ai maschi... Sì, così, fai l'amore con il mar..."
Dopo le esercitazioni di apnea e immersione, mi sento in vena di divulgazione scientifica: "Alex, lo sai che i trichechi si scontrano petto contro petto quando lottano per le femmine?" Mi pento immediatamente di essermi fatto scappare questa curiosità etologica non appena ricordo di avere di fronte un ragazzone di ventisei anni con un torace a due ante. Da quel momento non mi riesce di intavolare una conversazione a mollo con Anny e Betulla senza ricevere il colpo di petto a tradimento del tricheco in calore. Questo genere di agguati sfociano quasi sempre in stupri acquatici, tra lo sbigottimento e lo scandalo generale dei bagnanti, che mi guardano fuggire a nuoto e guadagnare stremato la riva invocando gli déi affinché mi sottraggano dalle grinfie del mio assalitore, anche a costo di trasformarmi in un giglio di mare.
Se intanto vi interessa avere un'idea del tipo di conversazioni che intercorrono tra i Julie mentre galleggiano oziosamente vicino alla riva, vi informo che si tratta dei temi più variegati, dai traumi infantili ("Vi ricordate la scena in cui André strappa la camicia a Lady Oscar e la scaraventa sul letto?!") a quesiti morali di un certo spessore ("Quale dea avreste scelto al posto di Paride?"), dai piccoli drammi quotidiani di Anny ("Raffy, ma non è che ora sono troppo abbronzata?") al palato difficile di Betulla ("Cosa intendi dire esattamente con 'non mi piace l'olio'?")
Intanto, col passare dei giorni, il sole e la salsedine privano via via i capelli rosso Ariel di Betulla della loro originaria intensità e allo stesso modo sbiadisce sempre più la mia autostima, ripetutamente umiliata dai fisici scultorei dei miei vicini d'ombrellone. "Ma come fanno ad essere così perfetti?" mi domando inutilmente, "Che ci mettono questi nelle pucce?" Anny si guarda in torno anche lei come a voler trovare una risposta che non c'è e mi rivolge uno sguardo solidale, poi si sistema il rivestimento floreale del costume e riprende a litigare con WhatsApp, che le impedisce di ricevere notizie del suo adorato gatto Ciccio.
Mi riaccascio sconfitto sull'asciugamano, sentendomi come se qualcuno avesse conficcato un ombrellone nelle sabbie mobili del mio amor proprio. Subito però mi risollevo, avvistando Betulla che corre dal bagnasciuga. Gli occhi luccicanti mi dicono che ha in mente qualcosa. I capelli, ora arancioni, raccolti in una coda di cavallo, la fanno assomigliare a Misty, l'allenatrice specializzata in Pokémon d'acqua. Tra l'altro ha anche un bikini a fantasia Togepi.
"Raffy, andiamo sull'aqua-rocket?!"
"Il Team Rocket? Dove?!"
"L'aqua-rocket! E' un gommone trainato da un motoscafo! Ti prego, Raffy, andiamoci!"
L'ottuagenario che c'è in me ha già risposto "no" prima ancora di sapere di cosa si tratti. Per questo accetto, anche se poco convinto. Ma forse il vero motivo della mia accondiscendenza è che voglio allontanarmi al più presto da un gruppo di tamarri che hanno deciso di giocare a calcio sul mio telo-mare (con i loro succinti speedo bianchi e la catenina d'oro al collo sembrano degli enormi e fastidiosissimi bebè.)
"Sarà divertente, Raffy!" mi assicura Betulla, "L'hanno fatto anche quelli di Geordie Shore!"
Ecco le parole magiche che volevo sentire...
Lasciamo sotto l'ombrellone Anny, che si è strategicamente finta morta, e una volta imbracati col giubbotto salvagente, io, Betulla e Alex prendiamo posto su una spaziosa poltrona gonfiabile. "Ragazzi, ma siete sicuri che sia abbastanza figo?" domando. "A me sembra un banale giro in barca... non era meglio un pedalò?"
Non riesco nemmeno a finire la frase che il motoscafo parte come un razzo mozzandomi il respiro. Alex mi sghignazza in faccia mentre mi aggrappo disperatamente alle maniglie e mi dimeno con tutto il corpo come uno sgombro appena pescato. Anche il sadico alla guida della barca se la ride all'idea di farci rischiare l'osso del collo ad ogni sobbalzo e virata repentina. Il giro della morte sembra non dover finire mai: "Ma dove ci sta portando 'sto pazzo?" grida Alex, che dopo mezz'ora di scossoni ha ben poco da ridere. "Boh, da qualche parte dove questa cosa è legale..." urlo per sovrastare il fragore degli spruzzi. "In Albania forse..."
Al termine dello sballottamento a pagamento io e lui arranchiamo più morti che vivi verso l'ombrellone, mentre Betulla si è già lanciata in un'agguerrita sfida a racchettoni con Anny, che perde, anche se dignitosamente, solo perché penalizzata dagli acciacchi dell'età. Io, nominato a mia insaputa arbitro della partita, cerco di leggere La Mandragola, se non fosse che un tizio spalmato sulla sdraio più vicina, non potendo dividere con tutti gli altri bagnanti le cuffie del suo iPod, si premura di cantare a squarciagola tutta la discografia di Vasco Rossi, a cominciare da: "Quanti anni hai, bambina? Quanti me ne dai stasera?" Non so la ragazza della canzone, ma io mi sento a un passo dal pensionamento, visto che devo infilarmi gli occhiali anche solo per seguire i movimenti dell'istruttore di aquagym.
Calate le tenebre i Julie si fanno belli per la vita notturna di Gallipoli, luogo d'incontro di tutti i galletti e le pollastrelle più festaioli del Salento. Prima, però, un salto a casa per una cena leggera (solo un'insalata anni '80 con pollo, speck, cetriolini e maionese) e una doccia, incidenti domestici permettendo: basta tirare troppo forte la tendina, che la sbarra della doccia ti cade sul piede strappandoti un'irripetibile maledizione in grico salentino stretto e costringendoti a improvvisare un'esibizione di pizzica dal dolore. Come se non bastasse, lo sventurato in questione - che sarei io - non riesce a rimetterla al suo posto e si vede obbligato a chiamare Alex. Lui la riaggiusta in un attimo mentre balzello sul piede sano nel tentativo di acciuffare l'asciugamano. "Tranquillo, Raffy, non hai niente che non abbia già visto" mi rassicura. "Sì, giusto..." convengo, "d'altronde, parafrasando Laura Pausini, yo lo tengo como todos..."
Odo scrosci di risate dalla toeletta delle ragazze. "Mi raccomando, non fate come me: tirate la tendina con la massima delicatezza... come se doveste scostare il sottile velo che separa due dimensioni parallele..."
Raggiungere la discoteca, accuratamente selezionata dalla nostra PR, Betulla, si rivela anche questa un'impresa non priva di imprevisti. Dopo giri in tondo e strade chiuse, ci decidiamo a chiedere informazioni a due vigili: "Dovete tornare indietro fino alla rotonda, poi prendere per Lido Conchiglie e proseguire dritto. Vedrete le luci..."
"Sì, è come una cattedrale nel deserto" aggiunge poeticamente il suo collega. "Non potete non vederla."
Per sicurezza, lungo la strada, Betulla chiede conferma a (quelle che scopriamo troppo tardi essere) due squillo. Avremmo dovuto capirlo dal fatto che erano stravaccate su una panchina davanti a un ristorante con i piedi poggiati su di una ringhiera, malgrado la gonna. La prima, con i capelli mesciati di biondo e un forte accento brasiliano, ci liquida subito dicendo di non sapere dov'è, sorridendo amaramente della nostra ingenuità, mentre l'altra ci dà delle vaghe indicazioni.
Finalmente, scorgiamo all'orizzonte la Cattedrale nel Deserto, un'oasi luminosa incastonata nel buio dell'Arizona salentina. Mentre incespica sui tacchi giù per la discesa rocciosa che funge da parcheggio, Betulla, i capelli sempre più rosé, sembra una principessa venusiana su suolo marziano. E sempre più alieno appare ai Julie il mondo intorno a loro una volta varcate le soglie della Cattedrale: delle sirene appollaiate su piattaforme galleggianti nel bel mezzo di una piscina lanciano sguardi ammaliatori da sotto i loro candidi cappucci alla Kylie Minogue, mentre una drag-queen alta due metri misura a grandi falcate la pista da ballo portandosi dietro uno strascico di piume di pavone (ogni deserto, d'altronde, deve avere la sua Priscilla). Da un palcoscenico che spara lingue di fuoco, una tizia sputata Lorena Bianchetti, ma strizzata in un completino di pelle nera da scomunica, canta This is the Rhythm of the Night dando inizio alla serata anni '90. Ci rendiamo conto ben presto che si tratta di una discoteca mista, che accoglie festaioli di ogni gusto, il che è bello e molto moderno ma anche poco pratico se si è in vena di avventure estive. Ovunque incantevoli menadi danzanti e semi-dei abbronzati si contorcono spargendo libagioni di vodka in onore di un Bacco col colbacco, ma tra questi si zampettano anche i soliti personaggi felliniani che costituiscono il piccolo popolo della notte: la tarchiata signora Cotechina, con delle infradito-gioiello a impreziosirle le gambe gonfie come cactus, il nano che si struscia con la biondona nordeuropea, il cannato che si fascia con cura ossessiva un braccio con delle stelle filanti o il gruppetto di cinesi scheletrici armati di ventaglio.
Gli incensieri della Cattedrale nel Deserto sprigionano ondate di nebbia artificiale, che avvolge tutto e tutti, e ogni volta che si dirada nulla sembra più com'era prima. Sorridi ad Anny che balla spensierata e, un attimo dopo, dal fumo bianco emerge una mano ignota che scivola sulla stampa foulard del suo vestito, accarezzandole la schiena. Anny si volta verso di me e Betulla, smarrita, poi i suoi occhi verdi, sgranati dalla sorpresa, inciampano nello sguardo di brace dell'affascinante sconosciuto che la stringe a sé. Lui le balla intorno per un po', giocando delicatamente coi suoi ricci castani, senza smettere di guardarla fisso attraverso gli occhiali neri da finto nerd, mentre in mezzo alla barbetta balugina un sorriso assassino, anche più bianco della camicia che lascia intravedere il petto color caramello. Assistiamo tutti compiaciuti a questo incontro fatale, cercando di leggere il labiale. Anny ha l'espressione piacevolmente incredula di Aurora quando crede di ballare col gufo e gli altri animaletti del bosco e invece si ritrova di punto in bianco tra le braccia del principe dei suoi sogni.
Ma le correnti del dance-floor, è cosa nota, sanno essere molto crudeli e portano via troppo presto l'ambrato seduttore.
Dopo non molto lo vediamo intento a ripetere lo stesso approccio mellifluo con una sciacquetta bionda dalle labbra e gli zigomi chiaramente gonfi di silicone, che io e Betulla fulminiamo all'istante con sguardi stroboscopici. Anny, invece, la prende con filosofia: una vera Julie continua a ballare e a divertirsi anche col cuore infranto.
Con pochi altri eventi degni di nota si conclude questo ritorno musicale agli anni '90, e il fatto che per divertirmi davvero abbia dovuto aspettare di muovermi a ritmo di canzoni vecchie di un decennio dimostra quanto sia fallimentare il mio proposito di iniziare a vivere pienamente la mia giovinezza. La sento costantemente sgusciarmi tra le mani, come questo week-end, giunto troppo presto alla parte dell'"end". Chiuse a fatica le valige e sistemato tutto in macchina, facciamo rotta mogi verso casa. La mia memoria senile, però, ancora una volta ci costringe a una falsa partenza.
"Perché ho l'impressione di aver dimenticato qualcosa?" borbotto, riesaminando i trolley, borsoni e beauty-case che mi seppelliscono.
"Hai spento il gas?" domanda Alex.
"Sì."
"Hai abbassato le tapparelle?" chiede Betulla.
"Sì."
Segue un attimo di silenzio, poi... scoppia il panico: "KEVIN*!!!"

* Il nome è lo stesso del piccolo, negletto protagonista di Mamma ho perso l'aereo, ma chi o che cosa è "il nostro Kevin"? Se indovinate avrete diritto ad entrare nel cast della seconda stagione di Julie Shore!

Illustrazione di Giulia Tomai.

lunedì 17 marzo 2014

Una serie di accademici accadimenti VIII - Senza vergogna

Non per stomaci delicati.
Avete presente quella canzone deprimente di Notting Hill, quando Hugh Grant deve fare i conti col fatto che Julia Roberts l'ha mollato? "Ain't no sunshine when she's gone... only darkness everyday..." Sì? Immaginate di ascoltarla ogni mattina mentre andate all'università, come succedeva a me, al mio primo anno. Ogni giorno, per almeno un mese, la stessa musica malinconica, dai monitor pubblicitari, mi accoglieva nel sottopasso della stazione. E anche quando risalivo lento e sonnolento la scalinata e riemergevo in superficie, quelle tristi parole continuavano a ristagnare nella mia mente. "Ain't no sunshine when she's gone... only darkness everyday..."
Non ero Hugh Grant, ma solo una matricola riluttante, e la strada lungo cui mi trascinavo non poteva essere più diversa da Portobello Road: monotona e squallida, tappezzata da centinaia di manifesti fluorescenti da cui Moira Orfei mi rivolgeva altrettanti sorrisi tirati.
La fine del liceo era arrivata troppo presto: mi ero aggrappato disperatamente al banco che dividevo con le mie migliori amiche, finché non avevano dovuto scrostarmi via come una vecchia Big-Babol fossilizzata e trascinarmi per le caviglie lungo tutto il tragitto fino all'università. Si stava così bene, al liceo... ero così felice, al liceo... ero praticamente il toy-boy di mezza classe, al liceo! E ora che era tutto finito mi sentivo come un ragazzino di Ti lascio una canzone dopo la pubertà, quando è troppo vecchio per intenerire gli anziani. Chi mi avrebbe più coccolato, vezzeggiato, e alle occorrenze anche insidiato, se non le mie adorate compagne di classe? Amanda, Miranda e Veneranda non mi avrebbero più condotto con la forza nelle scale d'emergenza per abusare del mio virgineo corpo, e questo pensiero mi uccideva. Mi sentivo inesorabilmente condannato all'anonimato e alla solitudine.
Ma mentre riguardavo mentalmente gli highlights della mia vecchia scuola, 'sì bella e perduta, non potevo immaginare che per qualcun altro gli anni delle superiori potessero essersi rivelati un vero e proprio inferno. Betulla, la ragazza che avrebbe illuminato come un faro la mia avvilente vita universitaria, portava ancora i segni della collisione tra il suo zigomo e il tacco delle scarpe di una compagna di classe convinta di essere Heather Parisi e ricordava con sofferenza quel "due" immotivato che le aveva dato una professoressa troppo incattivita dal suo divorzio per essere obbiettiva (non è da escludere che fosse stretta di voti anche col coniuge: "non mi soddisfi sessualmente: ti becchi 'due' sul registro!") Eppure, queste disavventure non avevano cancellato il suo radioso sorriso.
Quando ci siamo conosciuti, qualche settimana dopo l'inizio delle lezioni, è stato per delle fotocopie di francese che Betulla si era gentilmente offerta di fare per me. E a quel punto, nella mia mente, è partita She di Elvis Costello. Avevo già notato le ciocche rosa shocking tra i suoi capelli biondo crema, che mi avevano ricordato tanto le venature di una vaschetta di gelato variegato all'amarena. Non mi era sfuggita la forma perfettamente elicoidale del ciuffo davanti agli occhi, né le sue deliziose lentiggini, che le punteggiano le guance come i semini di una fragola ("sheeeee... may be the face I can't forget...") Sarebbe stato impossibile non accorgersi di quella bambolina dalla sciarpa animalier sui toni del fucsia e la borsetta a forma di matrioska, sempre in equilibrio sulle scarpe zeppate e glitterate d'argento, come una novella Dorothy (le scarpette rosse di Judy Garland discordano con la versione originale di Frank L. Baum.) Vedendomi triste e ingessato come un Uomo di Latta poco lubrificato, mi si è avvicinata e mi ha preso caritatevolmente per mano.
Betulla a quei tempi usciva da una storia complicata con Marilagna, una compagna di corso che aveva conosciuto a lezione di inglese e che dopo neanche cinque minuti si era messa in testa di essere la sua amica del cuore. Era stato un colpo di fulmine in stile La vita di Adele, ma non così corrisposto. Col tempo l'attaccamento di Marilagna si era fatto sempre più asfissiante, al punto da esplodere in folli scenate di gelosia ogni qual volta che Betulla mostrasse segno di voler ampliare la cerchia delle proprie amicizie universitarie. Un giorno Marilagna era arrivata persino ad inviarle una delirante lettera in endecasillabi saffici in cui l'accusava di averla crudelmente illusa. D'altronde si sa: frequentare insieme le lezioni, imbucare insieme lo statino per prenotarsi agli esami e sbeffeggiare i professori alle spalle sono tutti inequivocabili segnali d'amore! Per quanto Betulla abbia provato a chiarire le cose, da quando ha stretto amicizia con me, Marilagna le ha tolto il saluto, giurando vendetta e nascondendo l'anemico viso dietro l'unta cortina dei suoi capelli neri. Ancora oggi mi aspetto di essere rapito da uno stormo di scimmie alate da un momento all'altro.
Da allora io e Betulla siamo diventati inseparabili. Tra una lezione e l'altra, ridacchiando della pronuncia del professor Troietta ("The basic form of the past tense in English is the Past Simpollaaaah...") e canticchiando i motivetti delle apine sexy di MielPops, abbiamo scoperto di essere abbastanza diversi da non smettere mai di stupirci l'un l'altro. Betulla, ad esempio, preferisce fragole e i frutti rossi, io quelli tropicali; Lei ha riserve inesauribili di energia, e non ha bisogno di assumere bevande nervine né di dormire per rimanere attiva, mentre io necessito come minimo di otto ore di sonno e un caffè al ginseng per non passare una giornata intera a sbadigliare. A differenza mia, è sempre stata perfettamente in grado di barcamenarsi tra studio e vita sociale, col risultato di essersi laureata col massimo dei voti ed essersi felicemente fidanzata, senza contare che trova anche il tempo di sperimentare nuovi sport come il gravity-yoga o il Batuka, una specie di frenetica Zumba afro-caraibica. Betulla, sempre allegra e solare ("sheeee... who always seems so happy 'n proud..."), si incupisce solo all'approssimarsi di un esame, quando io invece mi lascio travolgere da una strana euforia che mi porta, pochi minuti prima della prova, a ripescare dalla memoria vecchie canzoni degli anni novanta, rivolgermi in modo sfacciato a compagne di corso che non conosco ("Ma te l'hanno mai detto che sei uguale a Prue di Streghe? Sì, quella che faceva anche Brenda in Beverly Hills! Sei proprio identica, hai anche il neo al posto giusto!", oppure "Mi ricordi tantissimo Lucrezia Lante della Rovere, lo sai?") o conversare con i poster appesi in facoltà ("Che c'è, Sam? Perché mi guardi così?" ho chiesto una volta al ritratto di Samuel Beckett affisso nella biblioteca di inglese, ma se dovevo aspettarmi una riposta tanto valeva aspettare Godot.)
Allo stesso tempo io e Betulla siamo abbastanza simili da capirci alla perfezione: anche lei adora inventare auguri di Natale in rima e neologismi come "sfotticitare" (cioè "citare qualcuno con l'intento di prenderlo in giro") o "menatelo" (l'opposto del menarca), in più nessuno dei due prova la benché minima vergogna ad ammettere di dividere il letto con un orso di peluche: io ho adottato Lotso, l'orso color vinaccia e profumato di fragola di Toy Story 3, quando mia sorella è andata a studiare fuori, mentre Betulla ha salvato dall'estinzione un orso polare dal muso così appuntito che il suo ragazzo voleva a tutti costi chiamarlo "Supposta", finché non sono intervenuto io e l'ho convinta a battezzarlo "Siluro", nome più musicale e un filino meno osceno. 
Quando siamo insieme, io e Betulla abbiamo l'insana tendenza a ingozzarci senza vergogna come se la prova costume non dovesse mai arrivare: è ormai tradizione festeggiare i successi accademici da Burger King. E non fate quella faccia: quando ci vuole, ci vuole. Recentemente, poi, dopo una piccola, fallimentare incursione nel mondo dei centrifugati di frutta e verdura, siamo passati dal junk food ai dessert ipercalorici. Ormai non c'è incontro che non cominci in sollucchero con una bella dose di zucchero presso la nostra pasticceria preferita, un posticino raccolto e fru fru, di quelli in cui qualunque maschio si vergognerebbe a farsi vedere. Ma l'imbarazzo di reggere un piattino rosa confetto, ingobbito su un sgabello per lillipuziani, senza sapere bene dove mettere il metro e passa di gambe che mi ritrovo, è pienamente compensato dai superlativi cup-cake. Su questa delizia inizialmente avevo qualche riserva, soprattutto per quanto riguarda il topping, dolce fino alla nausea e impossibile da mangiare senza spalmarselo in faccia. Poi ho guardato una vecchia replica de Il boss delle torte e  Mary, la starnazzante sorella di Buddy Valastro, mi ha rivelato una metodo infallibile per abbuffarsi di tortini senza l'inconveniente della maschera facciale alla crema di burro: basta tagliare il fondo del cup-cake e spiaccicarlo sul topping, così da smorzarne la stucchevole dolcezza e ottenere un piccolo panino, da mangiare in pochi morsi.


Come mangiare un cup-cake secondo il Metodo Mary Valastro. Se volete gustarvelo
 in modo ancora più elegante, potete seguire anche il Metodo Magnifico, inventato 
dalla mia amica Anny: è identico a quello di Mary, ma prevede l'uso del cucchiaino 
o di una forchettina.
Quando si condivide del cibo ad alto contenuto lipidico, si sa, non si può non condividere tutto. Si crea immancabilmente un legame speciale che incoraggia le confidenze. E Betulla è senz'altro il genere di persona con cui è facile aprire il proprio cuore. Qualcuno però esagera, come il collega da lei affettuosamente ribattezzato Cup-Checca, che non perde occasione per raccontarle i dettagli, assolutamente non richiesti, della propria funambolica vita sessuale, non esimendosi anche dall'inventariare davanti a lei tutti gli acquisti fatti al suo sexy-shop di fiducia: "Hey, 'Tulla, devo farti vedere assolutamente il mio nuovo dilatatore ana..."
Avendola scambiata per la sua sessuologa, Cup-Checca si dilunga in dettagliate descrizioni ovunque la incontri, che sia a lezione, al cinema, al pub, per negozi con sua madre o in yogurteria (dove, dopo simili discorsi, diventa difficile non guardare con sospetto il proprio frozen yogurt.) In più, come il Todd di Scrubs,  ha la straordinaria capacità di captare qualsiasi conversazione pruriginosa si stia intavolando a distanza di chilometri.
"Di che parlate?" ci ha chiesto una volta, cogliendoci di sorpresa nei pressi del dipartimento di anglistica.
"Oh, nulla... di un film" ha risposto evasiva Betulla.
"Quale?" ha subito inquisito Cup-Checca, dilatando le narici (forse dal sexy-shop compra anche dilatatori nasali.)
"Shame. L'hai visto?"
La domanda suona alquanto retorica, dato che si tratta di un film sulla dipendenza sessuale, per di più con Michael Fassbender come protagonista, e infatti Cup-Checca ha risposto prontamente, quasi offeso: "Certo! Hai visto quant'è..."
"Enorme? Sì, be', era difficile non notarlo..." ha ammesso suo malgrado Betulla.
"Fass... bender..." ho scandito, pensieroso. "Il nome stesso è evocativo. Fassbender... mi fa pensare a qualcosa di elastico, ma allo stesso tempo robusto e vigoroso..."
Anche Cup-Checca ci ha pensato un po' su: "Sì, solo a dirlo ti riempie la bocca come un pom..."
Vi basta sapere che la parola in sospeso non era "pomodoro." Rimasti agghiacciati per qualche secondo, Betulla e io ci siamo affrettati a congedarci.
Passare ore ed ore seduti attorno a un tavolino shabby-chic, tra quattro pareti tinte di lilla, con in mano una leziosa tazzina a fiori e davanti agli occhi un cup-cake ricoperto di stelline di zucchero ci ha resi evidentemente un po' troppo sensibili alla volgarità verbale. Non che Betulla sia mai stata sboccata: il massimo delle imprecazioni che ho sentito sfuggirle dalla bocca è "che strazio!" Adoro poi i vocaboli forbiti che cerca lodevolmente di riportare in auge nel parlare quotidiano. Basta dire che durante una partita a Taboo ha cercato, sopravvalutandoci, di far indovinare a noi compagni di squadra la parola "meticolosità" spiegandola come "un sinonimo di acribia."
Sono tante le cose che potrei ancora raccontare di Betulla ("Sheeeee... may be the reason I survive..." all'università) Come del fumetto che ho disegnato sulle avventure del suo alter-ego, l'incredibile Y-Girl, o di tutte le volte che mi ha ripetuto di guardare Shameless, una delle sue serie tv preferite. Ed è così che mi sento con lei sottobraccio: senza vergogna, e libero di tuffarmi in qualunque follia. Follie semplici e innocenti, come delle meches rosa neon.
"... me, I'll take her laughter and her tears... and make them all my souvenirs..."



Una serie di accademici accadimenti:
Episodio I - Stranieri e strani estranei
Episodio II - Grandi speranze
Episodio III - Legami chimici
Episodio IV - Studenti esasperati
Episodio V - In balìa della balia
Episodio VI - C'era una svolta
Episodio VII - Volver
Episodio VIII - Senza vergogna
Episodio IX - Chiamatemi (un) dottore

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